Sulla guerra abbiamo sentito e letto molto negli ultimi mesi. Dotte disquisizioni sul significato della parola, sulla torsione che subisce dal mondo greco a quello latino, da quello medievale a quello moderno. Richiami alla saggezza, alla prudenza e alla spregiudicatezza del realismo. Acrobatici tentativi di ricostruire la Causa, la Ragione unica di questo nuovo collasso europeo. E in mezzo la guerra vera. Tra tanti discorsi un argomento mi ha molto colpita: la contrapposizione frontale tra “guerra” e “pace”. Come se fosse un’alternativa secca, dinanzi alla quale la risposta deve essere una, eppure, per tutta una serie di evidenze, non può esserlo.
Mi spiego meglio. Premetto che trovo sprezzante l’atteggiamento di derisione e spesso di disprezzo delle ragioni del “pacifismo”, dimenticando la sua nobile e lunga tradizione, comprese le pratiche della non-violenza e della disobbedienza civile (mi ricorda la boria guerresca contro i “pacifondai”). Qui emerge una criticità. Posta l’alternativa secca guerra/pace, si contrappongono due “valori” o due “ideali”. Il punto è che questi due ideali o valori non lo sono. Non lo sono perché l’ideale, il valore è uno, ed è la pace. La guerra non è valore, né ideale. Questa trasformazione valoriale della guerra dev’essersi verificata in altri momenti “caldi” della nostra storia, quando la guerra veniva esaltata come “igiene del mondo”. Non mi pare tuttavia che oggi siamo – almeno non ancora – in preda a questi deliri.
Rimane il problema che qualcosa la guerra pure è, e qui mi arrendo all’argomento “strumentale”. La guerra è un mezzo: per l’aggressore non la continuazione (come voleva von Clausewitz), ma la distruzione della politica, che nella sua essenza è negoziazione (un tavolo, per quanto lungo, non è un’arma); per l’aggredito, è il mezzo per rispondere all’aggressore. L’alternativa non è quindi tra due ordini di valore, ma tra un valore e uno strumento. Per cui tutti possono essere “per” la pace ma nessuno – tralasciando le eccezioni patologiche che qui non ci interessano – può essere “per” la guerra. Al pacifismo – che è valoriale – non si contrappone un “guerricismo”, esattamente per l’assenza in quest’ultimo della dimensione valoriale.
Il discorso si complica naturalmente quando scendiamo nella profondità della natura umana – anzi, nei bassifondi – e scopriamo l’irriducibilità di questo “mezzo” nella definizione delle relazioni umane. Qui la natura strumentale della guerra si traduce nella determinazione antropologica del vivente che siamo. Determinazione che, tra l’altro, di “animalità” ha nulla, dal momento che non ho mai visto eserciti di rinoceronti che dichiarano guerra agli elefanti.
La guerra non è una “febbre” passeggera di cui ciclicamente si ammala il mondo (così Croce nel 1943, mentre contestava anche lui gli argomenti della “guerra come ideale”). Non è neppure una “catastrofe” che si abbatte sul mondo: le catastrofi hanno, da metà del Settecento fino a oggi, una specifica caratteristica, sono cioè sciagure che si verificano senza il concorso della volontà umana (per quanto, nella loro effettuazione, di responsabilità e trascuratezze umane se ne possono ritrovare molte, come ci ricordano le evidenze scientifiche sul cambiamento climatico). La strumentalità e la volontarietà della guerra si risolve in una specificità tutta umana, che mette radici nella conformazione nodosa, storta del “legno umano”. Queste deformazioni strutturali non si eliminano ma si possono contenere. Innanzitutto attribuendo ai valori pieni, quelli veramente tali, l’ufficio di contenimento di questi vizi originari. Perché questo sì, è possibile: è possibile cioè l’alternativa tra una politica di valori e una politica di strumenti.