Norberto Bobbio e Piero Gobetti, “neo-illuministi”
di Antonio Del Riccio

Nel 2001 Giancarlo Bosetti intervista per “La Repubblica” Norberto Bobbio, iniziando col domandargli una sua definizione di “Illuminismo”, per poi tracciare un percorso progressivamente più attualizzante, fino ad arrivare al crollo del muro di Berlino e all’illusione della fine dei totalitarismi, ed ottenendo dal celebre giurista e filosofo torinese, che sarebbe morto di lì a pochi anni, un prezioso dialogo, la cui trascrizione “Le illusioni del comunismo e la mia battaglia” è contenuta nel volume dello stesso anno “Attualità dell’Illuminismo” di E. Scalfari. Le “dichiarazioni” di illuminismo di Bobbio possono ritenersi il coronamento di un impegno al rinnovamento culturale e, inevitabilmente, per la natura dei tempi in cui il filosofo era chiamato a esprimersi, anche di un suo proprio senso di necessaria “partigianeria intellettuale”, impegno preso ufficialmente ai tempi della fondazione del “Centro studi metodologici”. Piero Gobetti qui viene preso a esempio da Bobbio come modello per rappresentare una certa vaghezza del concetto di “Illuminismo”. Eppure, anche Gobetti come Bobbio potrebbe essere annoverato tra i “neo-illuministi” del nostro tempo.   

Focalizzandosi inizialmente sulla raccolta di saggi di autori antilluministici denominata “Controcorrente” di I. Berlin, a cui lo stesso Bobbio aveva dedicato un articolo nel 1980 per la “Rivista storica italiana”, Bosetti chiede a Bobbio di confermare i propri sospetti riguardo alla posizione simpatizzante dell’accademico britannico nei confronti degli anti-illuministi: “sembrerebbe di sì”, dice Bobbio, “che lui stia dalla parte dei filosofi antilluministi, sia pre-illuministi come Vico, Herder, l’assoluto reazionario Hamann, sia post-illuministi come Sorel”. “Non per nulla Giambattista Vico è stato una quasi-scoperta di Benedetto Croce, che aveva svolto una delle sue grandi battaglie filosofiche contro l’Illuminismo considerandolo una manifestazione di quello che si poteva considerare un <<razionalismo astratto>>, l’espressione di una ragione che non sa riconoscere la pluralità delle situazioni storiche”. Questa battaglia filosofica antilluminista crociana ben risalta nella “Estetica” del 1902, dove il filosofo aveva liquidato le pioneristiche teorie linguistiche degli illuministi sull’arte perché viziate da pregiudizi intellettualistici e positivistici, per poi definire il pensiero di Vico “rivoluzionario”, polemizzando (e qui cito la raccolta “Saggi sulla scienza politica in Italia” di Bobbio, alla quale mi sono riferito anche altrove nel testo) implicitamente contro quella mentalità riformatrice di chi crede di poter modificare il presente e di preparare il futuro partendo dalla comprensione del passato. Proprio nella raccolta “Controcorrente”, Berlin ha legato l’illuminismo a un monismo filosofico scientista e razionalista, contrapponendovi i “veri padri del Romanticismo”, come Rousseau, Diderot, Herder, fautori più o meno consapevoli di un fantomatico Contro-Illuminismo già nel Settecento. Tuttavia, anche lo stesso Vico, allontanandoci dall’interpretazione crociano-berliniana, può essere ritenuto un pre-illuminista non solo a livello storico, ma anche dal punto di vista del pensiero, il “primo illuminista italiano”, dirà più avanti Bobbio riportando l’opinione di Abbagnano; un anticipatore dei Lumi, critico della verità del metodo geometrico deduttivo dei cartesiani e dei newtoniani nel campo del diritto naturale in nome di una conoscenza storica “a posteriori”, in pieno accordo con Diderot in merito al presunto dominio primitivo del linguaggio poetico sull’interpretazione della natura e sulla comunicazione umane, fondatore di una scuola napoletana del diritto naturale dalla quale sarebbe uscito il padre dell’Illuminismo italiano, Genovesi. I lavori di Croce e Berlin sul tema dimostrano quanto l’illuminismo sia stato ritenuto dagli studiosi, più che un periodo storico, un momento del pensiero, con un procedimento non dissimile da quello che aveva portato un filone storicistico vichiano a insistere sul carattere antistorico del diritto naturale, precursore contestuale del periodo illuministico, “meta-etica” per Bobbio, ma fondato, per questo schieramento intellettuale, su pretese di eternità e di universalità mal riposte, e fondativo del diritto come prodotto non della storia, ma della ragione. Lo stesso Bobbio, proseguendo nell’intervista, non si distacca dal paradigma dell’illuminismo come condizione storica kantiana, ed elabora una risposta sintetica e precisa dal punto di vista storico-filosofico alla domanda dell’intervistatore, e dunque definisce l’illuminismo “secondo che cosa gli si contrappone”. “Se gli si contrappone lo storicismo”, continua, “può sembrare una filosofia del passato, però se lo si considera nel suo significato autentico di philosophie des Lumières … nel senso kantiano, e in questo caso gli si oppone non lo storicismo ma l’oscurantismo … allora non è altro che la filosofia del progresso contrapposta alla filosofia reazionaria”. Oltre a mettere in risalto la prospettiva paradigmatica “Lumi-Rivoluzione francese” che “nazionalizza” progressivamente il periodo dei Lumi storicizzandolo in un blocco critico tra progresso e reazione, la risposta di Bobbio conferma che il senso kantiano è quello “autentico”: riprendendo le parole di Ferrone, la suggestiva rappresentazione kantiana, infatti, “aprì la strada a una prospettiva tuttora assai diffusa, quella che tende a concepire i Lumi soprattutto come pratica culturale, mito politico, ideologia progressista, filosofia perenne dell’uomo padrone del proprio destino”. Tale prospettiva porterà alla realizzazione di disparati e nuovi “neo-illuminismi” (mi permetto di riportare un testo in merito a cura di M. Pasini e D. Rolando, “Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia”) popolati, per l’appunto, da neo-illuministi, come lo stesso Bobbio si definisce insieme a tutti coloro che, dopo la guerra, “facevano riferimento a un ideale di rischiaramento, in una situazione che vedeva prevalere da un lato la filosofia romantica, idealistica, di Croce e Gentile, e dall’altro filosofie di ispirazione religiosa”, dunque indubbiamente insieme ai cofondatori del Centro studi metodologici Geymonat e Abbagnano, luogo adibito alla battaglia politica tra un nuovo razionalismo neoilluminista e neoempirista e l’idealismo-fascismo, e continua: “contro queste noi sostenevamo la filosofia della ragione autonoma, che giudica la storia”, storia vista come “idea di progresso fondato sul principio della libertà, intesa come liberazione progressiva e non mai del tutto esaurita, da tutti i pregiudizi, dai miti, dalle filosofie metafisiche, che in sostanza erano fideistiche”. Nel neo-illuminismo bobbiano, sui cui caratteri di libertà mi soffermerò più avanti, chiare sono le influenze di Cattaneo, “un illuminista rinato nel secolo dello storicismo”, “non positivista ma scienziato positivo” per Portinaro, e del primato delle istituzioni democratiche rispetto agli ideali salveminiano, ma non si comprenderebbero né il retroterra politico e culturale di Bobbio, né il suo progetto intellettuale, se non lo si inserisse nella tradizione gobettiana della “rivoluzione liberale”. Nell’intervista Bobbio cita Gobetti, richiamandolo a esempio della vaghezza concettuale dell’illuminismo sostenuta dal Bosetti, e nomina in particolare l’articolo di Gobetti “Illuminismo”, editoriale di presentazione de “Il Baretti”, definendolo: “una bandiera di battaglia contro il fascismo, contro Gentile, e il suo idealismo, contro le conversioni alla Papini, contro il neoclassicismo della Ronda, contro il futurismo e le “cento religioni”, contro il provincialismo e il nazionalismo”. Il Gobetti, storicista e crociano ma con una mente, a dire di Bobbio, “affollata di idee che urgono e spingono dalle parti più diverse”, nell’articolo suddetto esponeva gli intenti della neonata rivista: salvare la dignità prima che la genialità, ristabilire un “tono decoroso” e consolidare una sicurezza di valori e convinzioni, al fine di trovare “uno stile europeo”, e contrapponeva questi punti alla “nuova invasione di barbari” che consacrava la decadenza, i gruppi citati da Bobbio, utilizzando il termine “illuminismo” qui in un senso storico-filosofico che potremmo definire “movimento del mantenimento e della rottura”, per prendere in prestito due termini paretiani riferiti alla deprivazione dell’emotività dai termini “reazione” e “rivoluzione”, e applicandolo come un dispositivo ai suoi tempi, nei quali il vero spirito illuministico, del lume naturale acceso da Gobetti, non doveva guidare la destrutturazione, ma la ristrutturazione dove le orde barbariche idealiste, futuriste, dannunziane avevano fatto razzia di un enorme spazio di vuoto ideologico. Il Gobetti era anche un fine studioso dell’Illuminismo storico, e i suoi “Studi storici” permettono di avere una prospettiva originale e puntuale delle realtà e delle dinamiche sociali, economiche e delle personalità del Piemonte sette-ottocentesco, dunque è probabile che abbia scelto il termine “illuminismo” per questo articolo, come dice Bobbio, in un senso militante, in quanto portatore di idee anti-militanti, e aggiungerei, in pieno spirito illuministico filangieriano, anti-militari e militaristiche, seppur l’illuminista napoletano, per Gobetti, avesse costruito “nobili piani giuridici senza pensare alle rivoluzioni né alle forze popolari né alla libertà”, mentre l’Alfieri “fu il solo italiano che vedesse anche per noi, in pieno Settecento la possibilità di una rivoluzione dal basso in senso unitario”. Tuttavia, mi pare che il Gobetti leghi assolutamente la storia dell’Illuminismo piemontese alle figure degli intellettuali, degli studiosi di politica ed economia, in rapporto, discostandosi da una metodo storico (e geografico) idealista, ai potenti che ne deliberano, ne proteggono, o ne ostacolano o puniscono le azioni, con gli stessi intellettuali che sono sovente di estrazione clericale o nobiliare, e in questo senso quindi ha scorto nell’Illuminismo, o meglio, nell’”assolutismo illuminato” (“la lotta contro il feudalismo … si risolve a favore dello stato centralistico illuminato”), un contesto storico più reazionario che rivoluzionario, o almeno rivoluzionario ma nel senso di un riformismo moderato, graduale, generatore di mezzi e strumenti adoperati altresì dal potere centrale, e che poggiava salde basi nelle rivoluzioni scientifica e del metodo precedenti; così si spiegherebbero meglio espressioni conservative come “consolidare una sicurezza di valori e di convinzioni”, “fissare degli ostacoli agli improvvisatori”, “costruire delle difese per la nostra letteratura”, propositi di un liberalismo gobettiano che suggerisce di ergere barriere contro i movimenti politico-avanguardistici inebriati di retorica della violenza, frutto del primo conflitto mondiale, a difesa della libertà positiva di emancipazione dell’uomo, conquista del secolo dei Lumi.

Questa libertà positiva, o libertà “di”, è paragonabile alla constantiana “libertà degli antichi”, all’autonomia, alla legge che ciascuno dà a sé stesso, direbbe Rousseau, ed è contrapposta a quella dei moderni, che Bobbio definisce freedom from quando espone la dicotomia di Constant, nel prosieguo dell’intervista, per evidenziare la illiberalità della maggior parte degli autori proposti da Berlin, autore che ha come reale interesse la destrutturazione di ogni monismo, sospetta Bobbio, e che, suggerisce Bosetti nella ribattuta, preferisce la libertà dei moderni, o “libertà da”, perché è la più genuinamente liberale, mentre quella “di” è imparentata col socialismo e col comunismo, che il britannico definisce “esagerazione” dalla parte opposta a quella del nazionalismo, in un senso universalizzante e razionalizzante. Bobbio non si dice d’accordo con Berlin, e definisce comunismo e nazismo “due fratelli”, rispetto alla libertà della democrazia liberale e borghese. Bellinazzi, con cui Bobbio concorda, ne “L’utopia reazionaria” analizza gi argomenti che nazismo e comunismo propongono a difesa delle proprie tesi, e dimostra che essi hanno matrici comuni: la lotta contro il libero mondo borghese del mercato e degli stati parlamentari, parteggiano per la comunità arcaica rispetto alla società moderna degli individui singoli, sono movimenti organicisti sociali. Se si scava nei rapporti tra i due antagonisti Schmitt e Lukacs, si scopre che sostengono tutti e due su per giù le stesse idee, perché hanno lo stesso nemico, sono entrambi reazionari, e “il principe di questi reazionari sarebbe Rousseau”, stroncatore del razionalismo e dell’ottimismo dei Lumi (mentre, per Kelsen, il giusnaturalismo rousseauiano è uno dei pochi a non rivelarsi “di conservazione”), a mio avviso, inscrivibile a pieno titolo nella tradizione liberale moderna, riformista più che reazionaria, ma sicuramente non rivoluzionaria-utopica, se non per l’utilizzo del genere utopico-primitivista, molto in voga al tempo, che quindi rappresentava un mezzo di diffusione di determinati concetti, e non un fine politico-sociale, e per quella creazione di nuovi “spazi sociali” per la nascente classe media, che tuttavia si può attribuire più agli effetti della sua letteratura romanzesca-pedagogica che a quella politica, mentre, nel caso di quest’ultima, e persino nelle due opere “di rottura” del 1762, condannate e suscitatrici di scandalo, ovvero “Contratto sociale” e “Emilio”, si propugnavano, rispettivamente, valori come quelli del libero associazionismo tra liberi cittadini, proprio per mezzo dell’utopia, dell’orizzonte ideale della volontà generale, oppure, in accordo con le parole di Bobbio sul filosofo svizzero, che avrebbe raccomandato “ai suoi contemporanei di ritirarsi nella propria interiorità”, l’invito ad accettare la religione del proprio paese, con la riserva di opporsi, tuttavia, ad ogni suo aspetto di intolleranza. L’alleanza in occasione della Seconda Guerra Mondiale tra comunismo e democrazia, dialoganti perché apparentemente affini, si presenta come un’alleanza anche dal punto di vista “ideologico”, perché, ribatte Bosetti: “ci siamo in un certo senso abituati a pensare al marxismo – in questo d’accordo anche Berlin – come una <<esagerazione>> … come un eccesso del <<razionalismo astratto>>, invece che come un eccesso dell’<<irrazionalismo concreto>>”. Bobbio risponde che questa è stata una delle idee che i comunisti hanno utilizzato per autogiustificarsi, e poi dichiara che la valutazione per cui il nazismo si dichiara nemico dei Lumi, mentre il comunismo si attribuisce la funzione di loro continuatore e “superatore” è “destinata a cambiare”. Continua dicendo: “noi che abbiamo combattuto il nazismo alleati dei comunisti (e per fortuna c’è stata questa alleanza, che ha determinato la vittoria della democrazia) abbiamo sempre cercato di legittimare e giustificare in qualche modo i comunisti. Era comprensibile che cercassimo di rappresentarlo come un fenomeno progressivo e non regressivo. Eravamo alleati in una guerra mortale, capite? Ci sforzavamo di vederne gli aspetti positivi, che dopo la caduta del comunismo, non vediamo più”. Il palese giudizio negativo bobbiano per il nazismo ne precede un altro che invece lo storico torinese si ritrova a dover spiegare all’intervistatore, quello per il comunismo sovietico con cui gli intellettuali erano dovuti scendere a compromessi per il fine maggiore della salvezza dell’umanità, un comunismo, tuttavia, opposto a quello che immaginava Marx, che, “quando parlava del passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, esprimeva una sua illusione, e si è rivelato un terribile errore di visione storica”. Bobbio, dunque, allontanandosi dalla tradizione storiografica dei giudizi di fatto, esprime il proprio parere di storico e, insieme, di uomo e di partigiano, e offre dei giudizi di valore, fondativi proprio del giusnaturalismo illuminista, come aveva fatto anche il Gobetti nell’articolo citato precedentemente.

Mi pare che Bobbio possa, quindi, alla luce di ciò, ritenersi un “neoilluminista”, visti anche l’assonanza tra gli obiettivi del proprio gruppo neoilluminista di liberazione dai pregiudizi, dai miti, dalle metafisiche e quelli dell’Illuminismo storico, e il valore assolutamente positivo che conferisce all’età dei Lumi in quanto propugnatori dei valori democratici, e la sua volontà di rinnovarli, non di superarli. Quando, tuttavia, si richiama al Courtois per sottolineare che ovunque si sia instaurato uno stato comunista si ha avuto per conseguenza il dispotismo, parla appunto di “stati”, e di conseguenza di “uomini”, non di “idee”, ed eleva a condizione di stato, dunque, anche la “democrazia”, che quindi deve essere attuabile e fondata sul liberalismo, e che nel Novecento ha raggiunto “la vittoria”, politica, reale, grazie all’alleanza coi comunisti, sembra abbracciare anche una sorta di neo-idealismo laico e democratico. Oltre che a confrontare il perfezionismo del comunismo/nazismo con quello illuminista-rousseauiano-reazionario, come fa Bobbio in chiusura dell’intervista, giungendo alla conclusione che il liberalismo è, invece, anti-perfezionista, si potrebbero separare i due concetti, rispettivamente in perfezionismo e perfettibilità, in programmazione e attuazione dell’utopia e in intermediazione dell’utopia (come genere letterario). Su piani differenti da quelli della discussione intellettuale, che ha portato a tali opposizioni di principio, il centralismo e la realpolitik hanno scaricato dell’intento autoriale certi concetti, appropriandosene per espandersi e controllare il proprio territorio e la propria popolazione, attraverso, rispettivamente, il razionalismo e il giusnaturalismo come spinta anti-tradizionalista e anti-feudale, dunque centralizzante, e, nel caso delle iniziative private, i propri interessi, a braccetto con la tecnologia, che progredisce se adoperata.

Centro studi Piero Gobetti

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