“Il pessimismo oggi, mi sia permessa ancora questa espressione impolitica, è un dovere civile. Un dovere civile perché soltanto un pessimista radicale della ragione può destare qualche fremito in coloro che da una parte e dall’altra mostrano di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri” (N. Bobbio). A cinquant’anni dalla Strage di Piazza della Loggia, pubblichiamo l’intervento pronunciato da Norberto Bobbio all’incontro “Stato e società civile in Italia negli ultimi dieci anni, organizzato dalla Fondazione Clementina Calzari Trebeschi, Brescia, 22 novembre 1980, a partire dal libro Risposte a una lettera: riflessioni di uomini di cultura su strage e processo di piazza Loggia, Brescia 1980.
Parlando con la gente (o che è lo stesso tra me e me) mi accade spesso di sentir formulare (o di formulare) due giudizi o previsioni sul nostro immediato futuro diametralmente opposti: 1. Mi pare impossibile che la società italiana possa continuare in questo lento graduale apparentemente inarrestabile processo di disgregazione senza che giunga alla fine l’attuale ordine democratico, e il paese precipiti o in uno stato endemico di guerra civile o in una nuova forma di dispotismo; 2. Mi pare impossibile che in una società come quella italiana che in trent’anni di ordine democratico e progredita economicamente e civilmente, possa degenerare sino al punto di dover ricorrere agli estremi rimedi che seguono agli estremi mali.
Paradossalmente questi giudizi pur essendo opposti non si escludono a vicenda. Ciascuno di noi pronuncia o l’uno o l’altro secondo gli umori, le notizie che legge sul giornale, le persone che incontra. Pur non avendo affatto la vocazione del bastian contrario mi son trovato spontaneamente a difendere la prima tesi con un interlocutore che sosteneva la seconda e viceversa, senza aver l’impressione di contraddirmi.
La contraddizione tra le due tesi dipende da un contrasto interno in ciascuno di noi fra intelletto e sentimento, fra ragione e fede, fra la nostra facoltà di capire e la nostra facoltà di desiderare. O perlomeno io vivo drammaticamente la contraddizione in questo modo.
Combattuto tra timore e speranza, mi accade spesso di domandarmi come sia possibile temere e sperare nello stesso tempo. Non ho che una risposta: al timore mi induce la ragione, alla speranza il desiderio (di non soccombere, di non perdere in un sol colpo tutti i benefici di cui godo in un regime democratico: istinto di conservazione?).
Se ragiono ho paura, se mi abbandono al desiderio, posso ancora sperare. Ma sono prima di tutto un uomo di ragione. Dunque ho paura. Naturalmente non intendo parlare di paura personale, intendo parlare del timore che a causa dei nostri errori, nel cattivo uso che i potenti hanno fatto del loro potere, e gli impotenti della loro libertà, quell’ordinamento civile che è costato tante lacrime e tanto sangue venga, forse con altrettante lacrime e sangue distrutto.
Anche a costo di apparire urtante, dico che l’uomo di ragione nella drammatica situazione in cui versa il nostro Paese ha il dovere di essere pessimista. Lascio volentieri ai fanatici, cioè a coloro che vogliono la catastrofe, e ai fatui, cioè a coloro che pensano che alla fine tutto si accomoda, il piacere di essere ottimisti.
Il pessimismo oggi, mi sia permessa ancora questa espressione impolitica, è un dovere civile. Un dovere civile perché soltanto un pessimista radicale della ragione può destare qualche fremito in coloro che da una parte e dall’altra mostrano di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri.