Considero l’amicizia una dimensione fondamentale della vita, più stabile e rassicurante dei rapporti amorosi, che hanno le loro turbolenze. E poi nell’amicizia si può essere tranquillamente poligami, ogni amico e amica ha la sua speciale singolarità in cui troviamo una corrispondenza con i nostri molteplici bisogni e interessi. […] Ciascuna amicizia è un po’ speciale, ha una sua storia, dei ricordi e delle esperienze condivise. È una relazione basata sullo scambio e sulla scelta reciproca, cui riconosco un importante valore umano e sociale[1].
A dieci anni dalla morte di Bianca Guidetti Serra (Torino, 19 agosto 1919 – 24 giugno 2014), per la memoria storica e civile del Paese e della nostra città, Torino, giova ripercorrere sia pure a grandi linee le principali tappe della vita di una protagonista del Novecento italiano: la famiglia; l’amore; la scoperta del pregiudizio con le leggi razziali; l’incontro con la fabbrica e l’interesse per i problemi sociali; il comunismo a cui si avvicina agli inizi del ’43; la Resistenza e i Gruppi di difesa della donna; il non facile cammino di una donna nell’ambiente chiuso e conservatore dell’avvocatura; la rottura con il Partito Comunista nel 1956, quando con amarezza prende atto del fallimento del comunismo che aveva pensato come “la forma più alta di democrazia, fondata sull’eguaglianza sociale e la parità dei diritti”[2]; la militanza senza partito (Unione donne italiane, Anpi, Circolo della Resistenza, Unione culturale, Circolo di cultura socialista, Centro studi Piero Gobetti); l’impegno per i diritti umani con particolare riguardo a quelli per l’infanzia; i grandi processi di cui è stata protagonista: la banda Cavallero, il lungo Sessantotto nei tribunali, le schedature Fiat, le Brigate Rosse, le fabbriche della morte. Come a proseguire un impegno civile e politico mai venuto meno a fianco dei movimenti e delle istanze sociali, Bianca Guidetti Serra accettò di ricoprire incarichi istituzionali – sempre eletta come candidata indipendente, nelle liste di Democrazia Proletaria e dal 1990 del Pds – nel Consiglio comunale di Torino (1985-‘87; 1990-‘99) e alla Camera dei deputati (1987-‘90).
C’è un filo rosso che lega tra loro le diverse stagioni di una vita così intensa? Rileggendo la sua autobiografia, mi sono fatto persuaso che il filo rosso che attraversa la vita di Bianca è la democrazia, intesa anzitutto come partecipazione dal basso, un assillo che non la lasciava in pace, un vero e proprio tormento accresciutosi nella sua esperienza istituzionale, in ambito cittadino e nazionale, per le sorti della nostra democrazia: «una democrazia acerba, che la politica non riesce a riempire di significati concreti e vitali, anzi può addirittura imbarbarirla, come abbiamo vieppiù visto negli ultimi anni, riducendosi troppo spesso a spettacolo, demagogia, ambizione o tornaconto personale che svilisce le stesse istituzioni rappresentative»[3].
Dalla sua stessa vita ci vengono due ammaestramenti.
Primo: «la democrazia bisogna volerla e costruirla»[4], non rinunciando alla nostra libertà di scegliere e di immaginare altri mondi possibili. Si tratta di un processo, non di un dato naturale. Non è una conquista acquisita una volta per tutte. La democrazia può esaurirsi. La sua esistenza, se non la sopravvivenza, dipende dalla nostra capacità di non smarrire il filo delle sue ragioni, un filo da riannodare e intessere costantemente.
Secondo: «la democrazia si impara facendola»[5], praticandola e non mantenendo i cittadini sotto tutela. Bianca Guidetti Serra non si mostra incline a indulgenze, illusioni, delusioni: «Bisogna ammettere – afferma – che siamo ai primordi»[6]. Ella sa che il filo delle ragioni della democrazia è sottile e che se è troppo stretto si spezza, se è troppo lento non stringe nulla: «Da apprendisti, quali siamo, della convivenza democratica, dovremmo curarne il tessuto, impedirne gli sfrangiamenti a partire dal piano della cultura e dell’etica del discorso pubblico»[7].
La democrazia è un insieme di regole per convivere nel rispetto e nella tolleranza reciproca, che discendono direttamente da «una cultura, un atteggiamento morale con un senso del limite che predispone a capire le ragioni degli altri, a resistere alle tentazioni e agli incanti dei fanatismi, a riconoscere anche nei nemici delle persone»[8].
Bianca Guidetti Serra ci sprona a ragionare sul rapporto tra cultura e democrazia, sui fondamenti della convivenza sociale, sui mezzi e i fini della politica. Da lei ci viene l’invito a un bilancio, che, come potrebbe essere altrimenti?, non può non essere agrodolce: «Penso che il nostro tempo abbia maturato le premesse di una società democratica ma non so se abbiamo saputo valorizzare e interiorizzare compiutamente i principi che ne sono alla base, e le conseguenti responsabilità. Ciò che infine mi chiedo è se abbiamo costruito argini sufficienti a garantire quei diritti che rendono il mondo più vivibile»[9].
Ogni generazione è chiamata a fare le sue esperienze, mettersi alla prova nel proprio tempo e ciascuno di noi viene personalmente chiamato a portare il proprio piccolo granello di sabbia: «Il mondo va un po’ dove vuole, né si lascia pilotare, e nel fluire degli eventi ciò che ciascuno di noi può fare è poco più del classico granello di sabbia. Ma anche un piccolo granello di sabbia, unendosi ad altri, può creare degli argini a correnti pericolose, può inceppare ingranaggi e meccanismi diversi. Non bisogna arrendersi, rinunciare al cambiamento per quanto parziale, mai definitivo e salvifico»[10].
Note:
[1] B.Guidetti Serra, Bianca la rossa, con S. Mobiglia, Einaudi, Torino 2009, p. 267.
[2] B. Guidetti Serra, Bianca la rossa, cit., p. 78. Dopo l’assemblea di sezione in cui si discusse dei fatti del 1956 nel suo diario Bianca scrive: «Ciascuno di noi deve proprio sempre dire quanto pensa, e quanto pensa deve essere il meritato frutto di un esame obiettivo delle cose e della propria coscienza. Infatti, se sbagli, non avrai rimorsi, ché l’hai fatto in buona fede; se l’azzecchi, sei in gamba perché hai avuto il coraggio delle tue opinioni». Ivi, p. 77.
[3] Ivi, p. 256.
[4] Ivi, p. 251.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ivi, pp. 250-251.
[8] Ivi, p. 258.
[9] Ivi, p. 267.
[10] Ivi, p. 265.