Proprio oggi il nostro Fondatore avrebbe spento 106 candeline. Invece sarà il primo suo compleanno senza … il protagonista.
Credo che questa testata gli debba molto se non tutto.
Ma non gli piacerebbero i coccodrilli o i ricordi agiografici.
Me lo ripeté spesso, quasi con fastidio.
Bisogna guardare avanti, sempre e comunque, non perdendo il sentimento della memoria, anzi, ma senza trastullarci sulle commemorazioni.
Penso che tutti quelli che stanno leggendo questo articolo lo abbiano conosciuto personalmente.
Ognuno avrà nel suo zainetto i suoi ricordi.
Io per rispettare la promessa fatta al Fondatore, mi limiterò a dire che mi ha fatto scoprire cosa significhi, sul serio, essere un lottatore, uno che non si arrende mai.
Uno che su certi argomenti non negozia, va per la sua strada, quella che ritiene più giusta.
Abbiamo avuto insieme momenti belli e indimenticabili e momenti conflittuali … dimenticabilissimi!
Era duro e spietato nei confronti di chi non stimava o non reputava una controparte adeguata.
Era pragmatico nell’agire ma mai fuori dal perimetro dei suoi valori.
Quei valori che aveva difeso strenuamente per tutta la vita, conoscendo anche “l’odore del carcere” e il “rischio di lasciarci le penne”
Un uomo, insomma, fortemente connaturato nel ‘900, il secolo breve ma intenso, caratterizzato da due guerre mondiali e da tre catastrofici totalitarismi, il nazismo, il comunismo e il fascismo.
Il modo migliore per ricordarlo, senza con questo farlo irritare, credo che sia il racconto del nostro primo incontro che permise a questa testata di sopravvivere al suo Fondatore.
Oggi potete leggere questo pezzo perché L’Incontro è ancora sul mercato, nonostante un contesto editoriale complesso e contraddittorio dove l’indipendenza e l’autonomia di questa testata valgono, se possibile, ancora di più come esempio per le nuove generazioni.
Questo fa sicuramente piacere al nostro inimitabile Fondatore.
Riavvolgiamo dunque il nastro e torniamo ai primi giorni del settembre 2018, alla vigilia del suo centesimo genetliaco.
Il primo incontro con l’avv. Bruno Segre
Conobbi l’avv. Segre il 4 settembre del 2018 in occasione del compleanno dei suoi 100 anni. Allora ricoprivo la carica di Presidente della Fondazione Fulvio Croce e insieme al Centro Studi Gobetti e ai Consigli dell’Ordine degli Avvocati e dei Giornalisti decidemmo di programmare una serie di eventi proprio nella settimana del suo genetliaco. Come Presidente della Fondazione Fulvio Croce mi occupai pertanto di organizzare un evento di studi e approfondimenti su quella che era stata la vita del nostro collega, avvocato ma anche giornalista, fondatore e direttore della testata L’Incontro.
All’evento parteciparono moltissimi torinesi che riempirono la sala della Fondazione fino al limite della capienza consentita. Avevamo preparato una scaletta di interventi e mi fu assegnato quello iniziale, come padrone di casa, che decisi di dedicare alla modernità del pensiero del nostro festeggiato. Non avevo conosciuto personalmente l’avvocato prima di quell’evento ma avevo letto alcuni libri sulle sue gesta e soprattutto avevo sfogliato alcuni numeri del periodico diretto e realizzato da Segre. Mi concentrai pertanto su tutte quelle iniziative che Segre, fin dal dopoguerra, aveva coltivato nel campo della difesa dei diritti civili, della pace, della laicità dello Stato. La serata fu completata da un’altra serie di interventi di colleghi che si erano divisi i compiti sviluppando aspetti diversi della poliedricità del nostro collega. Segre era arrivato in grande forma, camminando con un bastone “che uso soltanto per sicurezza”, ci tenne a precisarmi subito. Si sedette al mio fianco e ascoltò in rispettoso silenzio tutti i vari interventi che si erano succeduti sulla sua storia, sulla sua figura, sulle sue attività in campo editoriale, professionale e politica. Mi ricordo che dopo circa tre ore di interventi, sottovoce, avvicinandomi al suo orecchio, gli chiesi se fosse stanco o se volesse dire due parole in chiusura. In caso contrario, saremmo passati direttamente al piccolo rinfresco che avevamo organizzato per festeggiarlo. Segre non mi lasciò finire la frase, dicendomi “ci mancherebbe: certo che mi piacerebbe chiudere commentando le cose che ho sentito. Non sono assolutamente stanco, per cui ci tengo a prendere in mano il microfono”. Il tono e la perentorietà della sua affermazione incominciarono a farmi capire la personalità di questo collega che aveva vissuto una vita intensa, appassionata, coraggiosa nel secolo, cosiddetto breve ma tragico, del ‘900. Prima come ebreo e poi come partigiano aveva visitato le patrie galere, rischiando anche la vita in diverse occasioni. Nel suo intervento di chiusura, ovviamente tutto a braccio, e anche questo aspetto, imparando a conoscerlo, sarebbe diventato un tratto distintivo della sua personalità, esordì dicendo che queste occasioni di memoria o comunque di festeggiamento non gli erano mai piaciute. Gli sembravano sempre delle esagerazioni formali più che delle riflessioni sostanziali. Disse però di avere sentito un intervento, quello mio, che lo aveva stuzzicato, gli aveva fatto alzare il sopracciglio. Gli era piaciuta l’idea che qualcuno avesse sottolineato la modernità del suo pensiero; la sua visione sui diritti civili degli esseri umani, la sua speranza che la pace non fosse una parola vuota ma diventasse una realtà concreta in un mondo che invece rischiava di essersi dimenticato delle tragedie del ‘900. Si girò verso di me, alla fine del suo intervento, e disse alla platea di colleghi, di magistrati, di amici e di sostenitori, che ringraziava la Fondazione Fulvio Croce e il suo Presidente perché gli avevano fatto passare una serata diversa e stimolante: chiese il permesso, lui, sempre arcigno e duro, di darmi un bacio di riconoscenza. E così ci abbracciammo e fu l’inizio di quella che considero una delle avventure più incredibili ma nello stesso tempo affascinanti della mia vita non solo professionale. Ci dicemmo subito che avevamo, nelle diversità ovviamente anagrafiche e di vita vissuta, una peculiarità identica: tutti e due avevamo fatto, contemporaneamente, due mestieri diversi, apparentemente lontani, in realtà molto complementari, l’avvocato e il giornalista. Quella sera nacque un grande rapporto che, ad un appassionato di storia come me, mi dischiuse la possibilità di confrontarmi con un testimone oculare delle vicende legate alla Resistenza in Piemonte e al periodo della guerra civile 1943-1945.
Quando la mattina dopo lessi su La Repubblica, in una intervista a Segre organizzata sempre per il suo centenario, che avrebbe chiuso L’Incontro in quanto non se la sentiva più di continuare a fare il direttore, il redattore, il correttore di bozze, il fattorino, il raccoglitore di fondi, ecc. ecc.., e che con grande dispiacere aveva già preparato il suo ultimo editoriale intitolato “Il Commiato”, mi permisi di chiamarlo al telefono, per ringraziarlo della piacevole serata ma anche per manifestargli tutto il mio dispiacere per la sua scelta. Combinammo di vederci, cosa che avvenne il giorno successivo. Ci tengo a ricostruire pedissequamente tutti i passaggi di quell’incontro, perché vorrei che rimanesse nella mente del lettore l’incredibile velocità delle decisioni che assumemmo in quelle ore, senza esserci mai conosciuti e non avendo quindi nessun tipo di relazione pregressa, salvo le tre ore passate insieme quella sera alla Fondazione Croce durante il suo compleanno.
Durante l’incontro, nel suo studio storico di Via della Consolata, un ufficio che sarebbe meglio definire il museo della storia di Torino, del Piemonte, dell’Italia e di un pezzo del mondo, mi spiegò meglio le ragioni della sua decisione. Lo studio era pieno zeppo di libri, riviste, ritagli di giornale, cartelline con la raccolta di documenti su specifiche tematiche oggetto di inchieste o di articoli sulla testata. Tutto più o meno ordinato …nel disordine, tutto accatastato nelle varie stanze secondo una logica che esisteva soltanto nel cervello di Bruno e della sua formidabile assistente Elena, formidabile anche per la pazienza che la contraddistingueva nei rapporti con l’avvocato. Insomma, un sito che racchiudeva in 100 mq la storia di Segre ma che voleva dire anche la storia della nostra comunità in un secolo complesso, tragico e contraddittorio come il ‘900. Gli dissi che in un Paese come il nostro (eravamo nel 2018 e lo spirito politico che arieggiava, a me, liberale da sempre, preoccupava… non poco) era davvero un peccato perdere la possibilità di poter contare su una rivista davvero indipendente, espressione di un pensiero liberale e socialista non manipolato dalla politica dei partiti. Gli dissi di sospendere la sua decisione fino a fine anno perché mi sarei mosso per cercare di trovare una soluzione che salvaguardasse la sopravvivenza della diffusione della testata. Fu la prima volta (ce ne fu soltanto un’altra che racconterò fra poco) che lo vidi commosso, con gli occhi lucidi, con di nuovo la speranza di poter salvare il suo “bambino” editoriale.
E mi misi al lavoro.
La costruzione del progetto di salvataggio della testata
Incominciai a parlarne in tutte le varie riunioni a cui partecipavo con amici, con colleghi, con clienti, con associazioni o riviste storiche con le quali intrattenevo relazioni di lavoro o di passione comune. Raccontai la storia di Segre, della sua testata, certo mettendoci tanta passione, tanta determinazione e tanta voglia di raggiungere l’obiettivo di salvare una rivista con quelle caratteristiche. Una rivista che in un panorama editoriale come quello italiano (conti in rosso, sempre meno lettori, sempre meno editori puri) non doveva finire nel cestino dei rifiuti. Raccolsi alcuni consensi dai miei colleghi di ufficio e pensai di costruire una cordata formata da una combinazione di professionisti e di imprenditori. Per questioni banalmente di vicinanza, mi concentrai sui torinesi e sui milanesi che frequentavo quotidianamente per lavoro. E così incontro dopo incontro, serate dopo serate, tutte dedicate ad immaginare non tanto il “se” ma il “come” poterci assumere la responsabilità folle di continuare l’attività editoriale di Bruno Segre, arrivammo poco prima di Natale a definire la formazione finale della squadra di quelli che nominai personalmente “I Coraggiosi”. Stendemmo un piano editoriale, un manifesto di valori, un piano industriale anche per capire quello che doveva essere l’investimento per rilevare da un lato la testata e dall’altro per trasformarla da cartacea a online. Era già una pazzia quella di comprare una testata giornalistica in un panorama editoriale fallimentare, sarebbe stata infatti una tragedia immaginare di mantenerla con la formula cartacea. Studiammo una soluzione tecnologica che ci permettesse di diventare una rivista della cosiddetta Rete su internet. Lo sforzo fu quello di non essere velleitari, ma di non arrenderci neanche di fronte alle decine di difficoltà che incontrammo o che comunque si potevano immaginare all’orizzonte. La svolta che ci fece decidere di procedere nell’operazione fu la consapevolezza di realizzare questo progetto non certo con finalità di lucro … anzi, ma di conservare in vita una testata con l’auspicio che servisse ai nostri figli e ai nostri nipoti per avere il riferimento di un pensiero indipendente di stampo liberal-socialista.
Il giorno prima di Natale tornai quindi dall’avvocato Segre dicendogli che avevo completato il lavoro e che volevo comunicargli gli esiti della mia indagine. Nella solita stanza del museo-ufficio di Via della Consolata, guardandoci negli occhi e dicendoci con il sorriso sulle labbra che sarebbe stata una pazzia, gli comunicai di aver trovato i 18 “Coraggiosi” (a cui poi se ne aggiunsero 3 negli anni successivi), 9 torinesi e 9 milanesi, pronti ad autotassarsi e a costituire una società a responsabilità limitata che avrebbe rilevato la testata proseguendone la pubblicazione con due direttori: uno di grande esperienza come Beniamino Bonardi, l’altro, molto più giovane, uscito dal master di comunicazione dell’Università di Torino, Alessandro Cappai. Credo che si meritino la citazione i 20 Coraggiosi che insieme al sottoscritto hanno permesso all’Incontro di essere ancora vivo e in Rete: Massimo Vergnano, Luigi Macioce, Piero Gastaldo, Massimo Ballario, Massimiliano Basilio, Mario Napoli, Massimo Chioda, Paolo Grandi, Giovanni Paviera, Fulvio Gianaria, Claudio Elestici, Bernardo Bertoldi, Giulio Cerioli, Lorenzo Lamberti, Vittorio Musso, Fabio Ghiberti, Andrea Bairati, Claudio Zucchellini, Roberto Cottellero, Alberto Caveri, Gianluca Morretta.
Divenni così presidente della società editrice a responsabilità limitata de L’Incontro, con Andrea Bairati amministratore delegato. Questa fu quel giorno del dicembre del 2018 la seconda volta in cui vidi Bruno Segre commosso: abbracciandomi mi disse “grazie: io ci sarò sempre con voi!”.
L’inizio dell’avventura online
Di lì partì una avventura con un orizzonte temporale incerto: speravamo di andare avanti qualche anno passando poi il testimone a dei giovani interessati a portarne avanti il progetto editoriale. Non ci ponevamo obiettivi specifici, salvo quelli, visto la gratuità della rivista diffusa online, di avere una sostenibilità economica supportata da una raccolta fondi di amici o comunque di soggetti interessati a che L’Incontro non chiudesse. Organizzammo due indimenticabili presentazioni della “pazzia editoriale” la prima a Torino alle OGR, nel marzo del 2019, la seconda a Milano, presso la Fondazione Feltrinelli, nel successivo mese di maggio, quando presentò il nostro progetto, naturalmente appoggiandolo, Gad Lerner, amico e estimatore di Bruno Segre. Sono passati oltre 5 anni da quelle date e siamo ancora vivi, nonostante le mille difficoltà incontrate e per ora superate.
Da oltre due anni, dopo la dipartita di Bonardi e le successive dimissioni di Cappai, abbiamo un nuovo direttore, Emilio Goj, un giornalista con un grande passato di direttore soprattutto in riviste del mondo Mondadori. Goj ha portato nuove firme al giornale e ha preso in mano, diventando anche lui un “prigioniero” de L’Incontro, la conduzione della testata con passione ed esperienza. L’Incontro continua a rimanere una testata indipendente fondata nel primo dopoguerra, aperta al contributo di tutti, nel perimetro dei valori espressi nel Manifesto citato prima. Nel tumultuoso e affollatissimo mercato editoriale della Rete, uno dei grandi problemi di una rivista come L’Incontro è quella di trovare un suo posizionamento identitario, tale da diventare un punto di riferimento di un certo target di lettori. Su questo punto abbiamo ancora delle praterie di miglioramento da realizzare anche per poter supportare il sostentamento della rivista dal punto di vista economico
Proprio quel posizionamento identitario per cui, in un mondo confuso e ritornato sul baratro degli incubi bellici, un mondo in cui le democrazie devono resistere a un assalto insistente delle autarchie e delle dittature, è importante far sopravvivere delle testate giornalistiche che si battano per la salvaguardia dei valori della libertà, della democrazia, della giustizia, anche sociale. Come diceva Bruno Segre, su questi temi, non dobbiamo arretrare e “non dobbiamo mai arrenderci”. E questo lo dobbiamo per responsabilità ai nostri figli e ai nostri nipoti a cui, a differenza nostra, lasciamo un mondo peggiore di quello che abbiamo ereditato.