Il mio incontro con Bruno Segre è avvenuto nel segno dell’obiezione di coscienza e di Aldo Capitini, compagno e maestro per lui, maestro ideale per me. Nei miei colloqui con Segre è tornato sovente il nome del filosofo italiano della nonviolenza evocato sempre con simpatia, stima e anche, perché non dirlo, a volte con una certa ironia, a volte con scetticismo, per la distanza che salta agli occhi tra il laico religioso (Capitini) e il laico laicista (Segre). Ne abbiamo parlato a lungo quando per il Centro studi Piero Gobetti abbiamo organizzato le manifestazioni per i suoi cento anni, con la sua supervisione e con la collaborazione di Maria Grazia Toma ed Elena Margando.
In occasione della morte di Capitini, il 19 ottobre 1968, Segre dedica all’amico un esauriente ritratto (La scomparsa del nostro Capitini, “L’INCONTRO”, ottobre 1968, firmato: «Sicor»). L’amicizia tra i due era sorta nel 1949, quando il processo al primo obiettore di coscienza, Pietro Pinna, li aveva fatti conoscere. Da allora Segre è diventato l’«avvocato degli obiettori di coscienza»; con le parole di Capitini: «un nobilissimo e generoso compagno» del Movimento nonviolento e degli obiettori di coscienza.
Non a caso il primo fascicolo de “L’INCONTRO” (settembre 1949) è largamente dedicato all’obiezione di coscienza. In prima pagina viene data la parola a Pietro Pinna, il primo a definire il suo «rifiuto» del servizio militare come «obiezione di coscienza» (Marco Labbate, Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana, Pacini, Pisa 2020), con una esplicita presa di posizione del giornale: «Pietro Pinna si sacrifica per tutti i giovani italiani. Il suo esempio indurrà il legislatore italiano a tener conto dei tempi nuovi con norme nuove. Pietro Pinna ha posto col suo gesto coraggioso un problema che va risolto. Gli uomini consapevoli debbono seguirlo in questa battaglia ideale in una fede per una fede di dignità e libertà». All’argomento è dedicata l’intera terza pagina che si apre con il titolo «I cittadini del mondo salutano in Pietro Pinna il difensore della pace e della fraternità». Viene riferito l’interessamento di Garry Davis per l’obiettore di coscienza francese Jean-Bernard Moreau e vengono offerte al lettore le opinioni in diversa misura favorevoli all’obiezione di un magistrato, Giovanni Durando e del monsignor Carlo Pettenuzzo, docente dell’Istituto internazionale Salesiano Don Bosco di Torino.
Le parole scritte alla morte di Capitini possono essere riprese ed estese a Bruno Segre: «Con il suo sorriso mite ed arguto, Capitini era un esempio per noi tutti di serenità e di fede, quasi un sacerdote laico, coerente nel pensiero e nell’azione, solidale con i deboli, i malati e i morti, rivelatore di verità spirituali, amico dei perseguitati d’ogni terra. Per questo patrimonio ideale, di cui era portatore, per questa tensione morale, per il suo incitamento all’amore per tutti, Capitini, oltre la morte, rimane in noi come una parte della nostra stessa vita, come una speranza dell’Umanità di domani».
Scorrendo le pagine de “L’INCONTRO”, ho scoperto che, in senso generale, si può ricostruire un ritratto di Bruno Segre nelle parole scritte da Aldo Capitini. Mi spiego. Nel settembre 1968, “L’INCONTRO”, in occasione dei suoi primi vent’anni, pubblica una intera pagina, con un editoriale di Sicor, intitolato Un onesto lavoro, e con i saluti e le felicitazioni degli antifascisti, dei partigiani, dei mazziniani, dei giornalisti, dei mondialisti, dei pacifisti e degli obiettori di coscienza. Per i pacifisti interviene, a un mese dalla morte, Capitini. Ebbene, le parole che egli usa per delineare l’attività de “L’INCONTRO” sono perfettamente calzanti nell’illustrare anche la personalità del suo fondatore.
Il giudizio di Capitini vale per i primi vent’anni ma anche per quelli successivi: “L’INCONTRO” è una «raccolta preziosa di notizie e di bibliografie, indispensabile e da consultare per ogni lavoro di storia contemporanea»; inoltre, sul piano politico, il giornale, con i commenti dei suoi collaboratori e gli editoriali illuminati e illuminanti del suo direttore, offre ai lettori un «giudizio necessariamente severo» sulle «frequenti ricadute dell’incertezza democratica italiana».
Insieme alla sua creatura prediletta, Segre ha attraversato un secolo con una «sicura navigazione», essendo protagonista di un movimento di idee, affrontando e superando crisi e problemi, andando incontro a conferme e anche a delusioni, informando sul meglio che è avvenuto nelle lotte ideologiche e politiche, sospingendo instancabilmente verso «una prospettiva etico-pacifista», richiamandosi fedelmente allo spirito della Resistenza, a «quella rivoluzione intellettual-popolare che esigeva una nuova società e nuovi rapporti tra i popoli» (sono espressioni di Capitini).
Nello scritto di Capitini, a cui ho fatto riferimento, s’incontra un vocabolo che a mio avviso riassume la personalità di Bruno Segre: costanza. Capitini attribuisce a Bruno e a “L’INCONTRO” una costanza «tutt’altro che frequente». Di che cosa si tratta? Qual è la costanza di Bruno Segre? In realtà, si tratta effettivamente di una merce rara che non si trova facilmente e non è a disposizione a buon mercato in tutti i negozi.
Per avere una risposta, o meglio per confermarmi in quella che avevo immaginato, una mattina, quando ha compiuto 100 anni (6 settembre 2018), sono andato a fargli visita nel suo studio e sede del giornale, in via della Consolata 11, al secondo piano, senza ascensore. L’ho trovato al tavolo di lavoro, attrezzato con righello e colla, intento a dare gli ultimi ritocchi al numero de “L’INCONTRO”, il giornale da lui stesso costruito in modo rigorosamente artigianale a mano.
Lo scopo della mia visita era domandargli se conosceva il libro di Vasco Pratolini, La costanza della ragione, Mondadori, Milano 1963; nuova ed. 1976), che è quasi un breviario di educazione morale alla ragione eletta a sistema e teorema. Egli non lo ha letto, ma si è riconosciuto sia nella formula la costanza della ragione sia nello spirito del libro. Faccio un solo esempio della costanza della ragione. La cattiveria, l’offesa imbrattano le mani di coloro che la praticano, in particolare «la vendetta tramuta la vittima in persecutore».
Nella sua visione l’obiezione di coscienza prescinde da motivazioni di carattere religioso: «Spesso la fede offre un rifugio ai deboli, una consolazione alle vittime, una speranza ai delusi. Se la società riuscisse a fornire agli individui ideali di progresso, di giustizia, di uguaglianza, e una condizione di vita serena e felice, il bisogno religioso forse scomparirebbe. Quante persone al mondo vivono professando scetticismo, agnosticismo o ateismo? Dunque la religione appare un surrogato per le proprie inquietudini, un alibi per sottrarsi alla ricerca di una vita razionale» (Non mi sono mai arreso, intervista con Bruno Segre, a cura di Nico Ivaldi, Lupieri Editore, Torino 2009).
Riprendendo il titolo del libro di Pratolini, si può dire che la costanza della ragione è il segno distintivo della vita e dell’opera di Bruno Segre. La sua bussola, la sua stella polare è stata e rimane la ragione, intesa (riporto parole sue annotate nel mio taccuino) come «elemento di equilibrio tra le persone che conduce le persone a meditare sulla ricerca della verità, alimentando il dubbio, sfidando tutti i dogmi, quelli religiosi e quelli politici». La ragione è la lente che il laico laicista, di cui Segre è una perfetta incarnazione, adotta per leggere il mondo e agire nella realtà.
Se l’umanità si può dividere tra chi crede di avere la verità e chi cerca la verità, Bruno Segre appartiene al popolo dei tenaci che non temono di andare contro corrente per rimanere fedeli agli ideali di libertà. di giustizia e di pace.