Ha destato scalpore l’annuncio del governo finlandese e, a ruota, di quello svedese (entrambi a guida socialdemocratica) di voler avviare le procedure per l’ingresso nella NATO. Come si spiega l’abbandono (che a moltə è apparso frettoloso e intempestivo) della radicata tradizione di neutralità? Da dove nasce quella russofobia che la guerra in Ucraina ha riattivato?
Bisogna risalire alle guerre napoleoniche e in particolare alla guerra di Finlandia, che si combatté tra il 1808 e il 1809 tra Russia e Svezia. A uscirne sconfitta fu la seconda, che dovette rinunciare alla Finlandia e affrontare un cambio dinastico. Il nuovo re, Karl Johan XIV, della casata dei Bernardotte, prese atto che la Finlandia era irreparabilmente perduta e le ambizioni da grande potenza della Svezia morte e sepolte, al cospetto dell’orso russo; meglio allora tenersi al di fuori delle contese tra i grandi stati. La libertà dalle alleanze militari, pur non codificata costituzionalmente, avrebbe orientato la politica estera svedese nel corso dell’’800 e del ‘900; nondimeno, ai governanti così come a larga parte della società civile appariva chiaro che l’arcinemico rimaneva la Russia (sopravanzata solo dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale). In almeno tre occasioni la neutralità svedese vacillò: la Guerra di Crimea (1853-1856), le due Guerre prussiano-danesi (1848-1851 e 1864) e, soprattutto, la Guerra d’inverno in Finlandia (1939-1940). Sconvolti dall’aggressione sovietica a un paese con cui avevano profondi legami storici, culturali ed economici, gli svedesi fornirono in gran numero armi e volontari. La libertà dalle alleanze tuttavia non fu mai messa seriamente in discussione.
La seconda guerra mondiale mostrò anche le ambiguità che potevano celarsi nella scelta di salvaguardare la pace (nel proprio territorio) a tutti i costi. Fu in nome della neutralità, infatti, che la Svezia, nelle fasi iniziali del conflitto, rifiutò di accogliere le ondate di profughi dai paesi occupati dai nazisti (con questi ultimi i governi socialdemocratici di Per Albin Hansson avevano intrattenuto floridi rapporti commerciali lungo tutti gli anni Trenta). Dal 1942 in poi, tuttavia, la Svezia sarebbe diventata il principale approdo di norvegesi e danesi in fuga (compresi i partigiani, che da lì avrebbero organizzato la Resistenza nei loro paesi); gli ebrei dovettero invece aspettare il 1943 perché Stoccolma li accogliesse. La pagina più controversa riguarda l’autorizzazione concessa tra il 1940 e il 1943 a circa due milioni di militari tedeschi in licenza di attraversare in treno il territorio svedese per spostarsi tra Norvegia e Germania (con l’unico vincolo di non aumentare il contingente tedesco nel paese occupato) e, ancor più grave, ai 18.000 uomini della divisione Engelbrecht di spostarsi, tra il 25 giugno e il 12 luglio 1941, dalla Norvegia alla Finlandia. Qui, dopo la vittoria riportata (a caro prezzo) dall’URSS nella Guerra d’inverno, infuriava un nuovo conflitto: sempre contro i sovietici, ma stavolta al fianco dell’esercito tedesco (rappresentanti del governo finlandese avevano siglato un accordo segreto con ufficiali nazisti). In un simile contesto, autorizzare il transito delle truppe di Hitler che andavano a rafforzare il fronte orientale era una scelta tutt’altro che neutra. Le concessioni del governo svedese furono inevitabili, per salvare il paese della guerra (come chiedeva l’opinione pubblica) e aiutare, sia pure tardivamente e contraddittoriamente, chi scappava dai paesi confinanti e dalla Germania stessa? Sul punto, il dibattito storiografico e politico è stato vivace, ma sostanzialmente indulgente.
Le tribolazioni della Finlandia non terminarono il 2 settembre del 1944, con la firma dell’armistizio. Stalin impose al piccolo paese, sconfitto due volte, di dichiarare guerra alla Germania; le ostilità si protrassero fino all’aprile del 1945. Con questa eredità storica di luci e ombre, i due paesi si affacciarono sulla soglia della Guerra fredda. Alla Finlandia furono imposte onerosissime riparazioni, ma almeno le fu risparmiato l’asservimento a Mosca. Dopo il 1945 il paese seguì una politica estera basata su due cardini: evitare comportamenti che potessero essere interpretati dall’Unione sovietica (e poi dalla Russia), come minacce alla propria sicurezza; al contempo, non fidarsi dell’ingombrante vicino e respingere al mittente qualsivoglia interferenza. La “dottrina Paasikivi-Kekkonen”, dal nome dei due presidenti della repubblica che ne assicurarono il successo, consisteva infatti nella ricerca di un equilibrio (mai acquisito una volta per tutte) tra il rispetto dell’ordinamento liberaldemocratico, e capitalista, del paese e l’esigenza di mantenere buoni rapporti con il moloch sovietico. Grazie a questo equilibrismo, la Finlandia rappresentò a lungo un ponte – economico, diplomatico e culturale – tra Est e Ovest; un ruolo che, a partire dagli anni Sessanta, avrebbe trovato un naturale complemento nell’accezione di neutralità che andava maturando in Svezia, grazie all’ascesa di Olof Palme. Con lui la politica estera passò da un sostanziale isolazionismo al neutralismo attivo: il giovane leader (il cui omicidio, nel 1986, non si esclude sia stato commissionato da trafficanti di armi) condannò con una franchezza inedita per un politico occidentale i crimini di guerra degli USA in Vietnam, ma non risparmiò neppure Mosca, di cui stigmatizzò le violazioni sistematiche del diritto internazionale e dei diritti civili e politici in casa propria. Nel 1980 Palme istituì una Commissione indipendente per il disarmo e la sicurezza, che sarebbe diventata nota come Commissione Palme. Due anni dopo, in una fase in cui la pace nel mondo appariva particolarmente a rischio, essa lanciò il concetto di sicurezza collettiva, di cui l’ONU doveva essere garante. All’equilibrio del terrore veniva contrapposto il disarmo come condizione necessaria di una giustizia globale; alla mobilitazione popolare veniva assegnato un ruolo determinante. Il circolo virtuoso tra pace e solidarietà internazionale ispirava anche il neutralismo finlandese.
Ora le prime ministre di Svezia e Finlandia, Magdalena Andersson e Sanna Marin, hanno deciso di chiudere nell’armadio della storia la neutralità, proprio quando ce ne sarebbe più bisogno. L’invasione russa dell’Ucraina ha spinto la Finlandia a considerare essenziale la protezione della NATO (sul cui automatismo aleggiano peraltro grossi dubbi); di conseguenza, la Svezia ha ritenuto di non poter rimanere l’unico paese nordico al di fuori dell’alleanza militare. Gli esperti sono tuttavia concordi nell’escludere il rischio di un attacco russo ai due paesi (così come era infondato il timore di un piano di Hitler per aggredire la Svezia). La svolta, compiuta frettolosamente e screditando chi vi si oppone, sembra piuttosto costituire l’epilogo di un lungo processo di omologazione del “modello nordico” al capitalismo più aggressivo, xenofobia e militarismo compresi. Del resto, da tempo entrambi i paesi – che pure si vantano, soprattutto la Svezia, di essere “superpotenze morali” - hanno intensificato la cooperazione con la NATO (tra esercitazioni congiunte e partecipazione a missioni internazionali, Afghanistan incluso). La richiesta di adesione si configura dunque come il compimento formale di un processo in corso dalla metà degli anni Novanta. Proprio la guerra in Ucraina poteva invece essere l’occasione per recuperare, valorizzandolo, il neutralismo attivo, così da svolgere una funzione di ponte tra Est e Ovest e tra Nord e Sud del mondo: quel Sud che in larga parte non ha votato, all’ONU, a favore delle sanzioni contro la Russia non perché ne approvi la condotta criminale, ma perché si sente ingannato e sfruttato dall’Occidente.