Mentre indaga su un crimine compiuto da un candidato alle elezioni a Presidente di una amministrazione provinciale, il commissario Giacomo Curreli si lascia andare con il fido assistente, l’agente Marchini: “Beh, adesso quella che chiamano democrazia, ha le labbra finte, i capelli ossigenati e tutto il resto. E’ finta: non è quello che sembra … o quello che vogliono farci credere. […] La democrazia che piace a me non ha né i soldi né il tempo per rifarsi le tette. E’ chiaro?”[1].
Se le cose stanno (e almeno in parte, secondo una larga opinione pubblica, stanno così) come le dipinge il commissario, a un passaggio decisivo per la storia del Paese come le prossime elezioni politiche generali del 25 settembre 2022, giova interrogarsi sulla qualità della democrazia che è determinata da chi e come esercita il potere, da in che misura il potere viene dall’alto o dal basso, dal rapporto virtuoso che si stabilisce tra regole e valori e dalla capacità della democrazia di rimanere fedele al suoi principio ispiratore: l’eguaglianza. La democrazia come piace a noi.
Come ci ha insegnato Norberto Bobbio, si può definire la democrazia, e in genere ogni altra forma di governo, in base a diversi criteri. Un primo criterio è quello della titolarità del potere: «chi esercita il potere?». In questo senso il significato letterale del termine «democrazia» è rimasto invariato dall’antichità ai giorni nostri: la democrazia è il potere del popolo, distinta dalla «monarchia», il potere di uno solo, e dalla «aristocrazia», il potere di pochi.
Più specificamente l’«aristocrazia» è il potere dei migliori cui corrisponde nella sua forma negativa l’«oligarchia», che è il potere di una fazione sulle altre; la «monarchia» è il potere del monarca che lo esercita in modo legittimo e legale cui corrisponde nella sua forma negativa la «tirannia», che è il potere arbitrario di uno solo; la «democrazia» è il potere dei molti o del maggior numero cui corrisponde nella sua forma negativa l’«oclocrazia», che è il potere del popolo abbandonato ai suoi istinti[2].
Un secondo criterio è quello del modo dell’esercizio del potere: «come viene esercitato il potere?». Da questo punto di vista, la «democrazia dei moderni» si differenzia dalla «democrazia degli antichi» per il modo in cui il popolo esercita il potere: direttamente nell’agorà, nei comitia, nell’arengo oppure attraverso i propri rappresentanti eletti in parlamento. Mentre la democrazia rappresentativa si è affermata nei grandi stati moderni, la democrazia diretta è rimasta un «ideale limite»[3]. Se con l’avvento dell’era dei computer la democrazia diretta sarà la democrazia del futuro è una questione a tutt’oggi controversa?[4]. In alcuni casi la democrazia rappresentativa è integrata da forme di democrazia diretta come l’istituto del referendum. Ma le modalità in cui si sono svolti i referendum successivi, l’invito all’astensione da parte di autorità politiche, religiose e governative e la progressiva scarsa partecipazione suggeriscono una riforma dell’istituto del referendum se, come chi scrive, si ritiene che la salvaguardia e l’estensione di forme di democrazia diretta siano un lievito per la democrazia parlamentare[5]. Nel passaggio dalla democrazia degli antichi a quella dei moderni muta radicalmente il concetto stesso di popolo. Si può dire che mentre la prima è una democrazia di decisori, la seconda è una democrazia di elettori presi uno per uno (uti singuli). Alla base della democrazia moderna sta la sovranità dei cittadini più che la sovranità del popolo.
Un terzo criterio è quello del principio di legittimazione del potere: «il potere viene dall’alto o dal basso?». In questo senso la democrazia, tanto quella indiretta quanto quella diretta, si oppone all’autocrazia perché l’una è caratterizzata dalla forma di potere ascendente (dal basso verso l’alto), l’altra dalla forma di potere discendente (dall’alto verso il basso). La democrazia è una forma di governo che si fonda sul consenso attivo e non passivo, informato e consapevole dei governati. In una prospettiva ideale la democrazia è il sistema dell’autonomia.
Occorre precisare che la democrazia può essere definita sia in base a un criterio procedurale sia in base a un principio etico. Dal punto di vista procedurale la forma di democrazia cui va la simpatia di chi scrive è la democrazia parlamentare perché nel regime parlamentare l’esecutivo (il governo) dipende dal legislativo (il parlamento), il quale a sua volta riposa sul voto popolare. Ad essa si oppone la democrazia presidenziale in cui il capo dell’esecutivo, eletto direttamente e periodicamente dal popolo, risponde della sua azione di governo non al parlamento ma agli elettori. Un’altra distinzione possibile è quella tra democrazia maggioritaria e democrazia consensuale. Mentre in un regime maggioritario la maggioranza è costituita da un solo partito oppure dall’alleanza del partito a vocazione maggioritaria con uno o più partiti minori, nel regime consensuale la formazione del governo è il prodotto di un accordo o se si vuole di un compromesso tra i partiti rappresentati in parlamento attraverso un sistema elettorale proporzionale.
Come si è già detto, la democrazia, e ogni altra forma di governo, può essere definita in base al principio etico che sta al suo fondamento (concezione etica della democrazia). L’eguaglianza, per dirlo con Montesquieu: «l’amore per l’eguaglianza», è sempre stata considerata il principio ispiratore della democrazia, al punto che nella storia del pensiero politico si può scorgere una linea di divisione tra scrittori egualitari, e in quanto tali democratici, e scrittori inegualitari, e in quanto tali antidemocratici. Se lo scrittore democratico ed egualitario per eccellenza è Jean Jacques Rousseau, quello antidemocratico e inegualitario per eccellenza è Friedrich Nietzsche. La principale ragione per cui i conservatori e i reazionari di tutte le età rigettano la democrazia è la sua intrinseca tendenza verso l’eguaglianza.
Note:
[1] M. Fois, Quello che manca, in Aa.VV., Crimini, a cura di G. De Cataldo, Einaudi, Torino 2007, p. 297.
[2] N. Bobbio, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Anno accademico 1975-76, Giappichelli, Torino, 1976 e M.L. Salvadori, Democrazia. Storia di una idea tra mito e realtà, Donzelli, Milano 2016.
[3] Polemicamente Rousseau contrapponeva la democrazia degli antichi a quella che si era affermata nell’Inghilterra del suo tempo, sostenendo che “il popolo inglese crede di essere libero ma si sbaglia di grosso, lo è soltanto durante l’elezione dei membri in parlamento, non appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente” (Contratto sociale, libro III, cap. XV, in Scritti politici, a cura di Paolo Alatri, Utet, Torino, 1970, p. 802). Ma lo stesso Rousseau avvertiva che la democrazia diretta sarebbe possibile solo in comunità molto piccole e che essa è una forma di governo adatta più agli dei che agli uomini.
[4] F. Pallante, Contro la democrazia diretta, Einaudi, Torino 2020.
[5] La prospettiva di una integrazione tra le due democrazie, agevolando e sviluppando nei cittadini “l’abitudine di associarsi nella vita quotidiana” (Tocqueville) è sostenuta, tra gli altri, con intelligenza e buoni argomenti da Paul Ginsborg, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino 2006.