L’impulso a scrivere il libro le venne rivedendo, dopo la Liberazione, Benedetto Croce. Tra chi aveva vissuto la guerra partigiana e chi cercava di rendersene conto attraverso i racconti dei partecipanti si andava segnando un divario di valutazione, una difficoltà di comprendere appieno quell’esperienza.
Queste memorie furono scritte da Ada Gobetti per esortazione di Benedetto Croce, per farle leggere al vecchio amico.
Italo Calvino, 1956
Il Diario Partigiano di Ada Gobetti al momento della sua prima pubblicazione uscì accompagnato da una breve introduzione di Italo Calvino che ne esplicitava la genesi. Ancora dalla nota calviniana, nonché dalle parole dell’autrice stessa, il lettore apprende che il volume è il risultato della rielaborazione di appunti fissati quotidianamente durante l’esperienza bellica in minuscoli taccuini scritti in inglese criptico, codice usato per mettere al sicuro un racconto fuori legge.
Tra la scrittura in presa diretta, terminata con la fine della guerra, e la prima rielaborazione degli appunti trascorsero circa due anni. Il libro, però, vide la luce soltanto nel 1956. Quale fu, dunque, il motivo di questo iato temporale che si insinua tra il tempo della prima scrittura e il momento della pubblicazione? L’intervallo di tempo appare ancor più significativo se si considera che la stagione fortunata della letteratura resistenziale fu naturalmente quella appena successiva alla Liberazione, nella quale chi aveva messo nero su bianco durante il biennio di lotta per lo più si affrettò a pubblicare.
Lo scrittoio dell’autrice, come spesso accade, può fornire spiegazioni. Se ci si inoltra tra le carte del ricchissimo archivio di Ada Gobetti, nelle cartelle che conservano i materiali preparatori dei suoi scritti, si trovano manoscritti e dattiloscritti che preparano l’uscita del Diario in edizione. È possibile seguire in questo modo l’elaborazione di un testo e il progressivo definirsi di un’opera: dai primi minuscoli taccuini alle ultime bozze si profila un percorso lineare ma non immediato. È la stessa autrice ad avvertire il lettore che l’opera che sta per leggere nasce da un rifacimento dei taccuini che fornirono soltanto la base per una elaborazione distesa: «per tutto il periodo della lotta clandestina, scrissi ogni sera, su una minuscola agenda, scheletrici appunti in un inglese criptico, quasi cifrato, che mi permettono oggi non solo di ricostruire i fatti, ma anche di rivivere l’atmosfera e lo stato d’animo di quei giorni». Così scrive Ada in uno di quegli interventi autoriali che vanno a formare una cornice intorno al racconto vero e proprio della lotta.
La prima riscrittura dei taccuini avviene verosimilmente su quaderni che oggi non possediamo e successivamente viene trasferita sui dattiloscritti datati al 1947 che invece sono conservati e permettono di seguire l’evoluzione testuale fino al momento della pubblicazione. La prima macroscopica trasformazione dalla scrittura in presa diretta testimoniata dal taccuino all’opera pubblicata nel ’56 avviene sul piano della scansione giornaliera. Il teorico del genere diaristico Maurice Blanchot afferma che un diario, per quanto sfuggente a rigide definizioni formali, per essere definito tale deve quanto meno rispettare la scansione giornaliera, affinché anche i pensieri «più remoti e aberranti» siano «trattenuti entro il cerchio della vita quotidiana»[1]. La narrazione di Ada non soltanto talvolta si svincola dalla rigidità della scansione giornaliera, ma da un confronto tra taccuino, dattiloscritti e Diario editato emerge con chiarezza come alcune giornate vengano soppresse per l’edizione, altre accorpate e in generale alcuni eventi risultano riposizionati nel calendario. Si potrebbe pensare che un simile intervento sul testo sia animato da esigenze estetico-letterarie che mettono così in secondo piano la sincerità del racconto. Ma si darebbe una lettura parziale: chi scrive di sé seleziona e dispone gli eventi del proprio passato secondo un criterio soggettivo che inevitabilmente rivela l’importanza che alcuni momenti assumono su altri da un punto di vista personale. Nella scelta di esorbitare in alcuni passaggi dalla rigida scansione giornaliera si può leggere il desiderio di aderire a una più profonda verità che non confligge con quella storica, ossia la verità personale, la disposizione d’animo con la quale ha vissuto l’evento. Certamente la selezione e l’ordine dei fatti non ignorano ragioni di carattere stilistico: l’equilibrio compositivo presente nel Diario attesta una sicura padronanza dell’ars narrandi, che del resto al momento della stesura dell’opera risulta ormai esercitata e raffinata da Ada. Gabriele Pedullà nella sua antologia di Racconti della Resistenza isola una categoria di scrittrici e scrittori che nascono con la lotta partigiana; come esempio di scrittrice che approda alla Resistenza a carriera iniziata il critico ricorda invece Ada Gobetti, che senz’altro non si scopre narratrice con la stagione resistenziale. Si potrebbe però osservare come questo singolare momento storico rappresenti un’occasione di rinascita artistica per Ada che offre con il Diario la prova di una raggiunta maturità stilistica.
Sul dattiloscritto rimangono correzioni, rimaneggiamenti, cassature che testimoniano un lavoro di lima che si pone come scopo una narrazione contenutisticamente equilibrata e stilisticamente pregiata. Al lavoro di rimaneggiamento giovarono consigli d’eccezione, come quelli di Benedetto Croce: tra le pagine del carteggio[2] tra i due resta la prova dei suggerimenti che il filosofo volle dare all’amica prolungando una consuetudine avviata dai tempi del Gallo Sebastiano. «Credo che il suo scritto sia di molta importanza per la storia di ciò che è accaduto in Piemonte, di tutti gli sforzi, di tutti gli avvedimenti, di tutti gli affanni che sono costate le azioni dei partigiani. Questa parte non trova compenso adeguato nelle narrazioni delle battaglie, ossia dei fatti militari», obietta Croce a Ada, che dal canto suo, però, non sembra dare largo seguito al monito. Ada percorre complessivamente un’altra strada, scegliendo di comporre un’opera il cui «carattere eccezionale» - come notò Calvino – risiede non tanto nella narrazione delle azioni, dei fatti militari, quanto nel volto più personale o familiare della storia. Le journal intime di Ada Gobetti è «il libro di una madre […], d’una madre che va a fare la guerra partigiana insieme a suo figlio di diciotto anni, e con lui divide i pericoli e i disagi»[3], osserva ancora Calvino. Il Diario viene pubblicato con Einaudi nel 1956, anno in cui convenzionalmente si fa terminare la stagione neorealista e l’entusiasmo letterario riservato ai racconti partigiani si considera generalmente affievolito. Ma a ben guardare le pubblicazioni incentrate sul tema resistenziale vanno ben oltre il 1956: l’anno successivo all’uscita del Diario Lalla Romano pubblica Tetto Murato e Fenoglio deve ancora pubblicare Primavera di Bellezza. I grandi romanzi dello scrittore albese, Una questione privata e Il partigiano Johnny usciranno postumi negli anni ‘60. Qual è la letteratura che il 1956 si lascia alle spalle allora? A questa data si può effettivamente considerare conclusa la stagione florida della narrazione retoricamente compiaciuta e ideologicamente marcata della lotta partigiana. Le narrazioni nate «anonimamente dal clima generale d’un’epoca» - mutuando le parole adottate da Calvino nella nota prefazione al suo primo romanzo – nel 1956 avevano probabilmente esaurito la loro vitalità e avevano fatto spazio a narrazioni libere da picchi retorici e capaci di mostrare anche la «questione privata» della Storia. Così il Diario di Ada, che racconta la Resistenza dal punto di vista di una partigiana, di una madre, di un’amica che nelle situazioni di pericolo trova occasioni per riflettere sui rapporti umani e riscoprirli, nel 1956, al momento della sua uscita, si presenta come un prodotto perfettamente adeguato al suo tempo storico e letterario.
Anche tale esattezza si raggiunge nel corso dell’elaborazione testuale. Dal taccuino al dattiloscritto fino al Dario partigiano, il testo si arricchisce di considerazioni, riflessioni personali che svelano stati d’animo, umori e timori propri di una visione soggettiva dell’esperienza e non per questo meno reale. Nell’evoluzione del testo le persone diventano personaggi restituiti con puntualità di dettagli ai quali spesso l’autrice affida la presentazione al lettore: caratteristiche, minuzie e particolarità bizzarre hanno frequentemente il compito di inquadrare il personaggio. Questi dettagli, che possono individuarsi in una barba incolta, in abiti buffi, in una movenza stravagante hanno spesso la forza di umanizzare e avvicinare figure eroiche. Al contrario, invece, viene costantemente evidenziato il ruolo centrale della gente comune nelle dinamiche della lotta. L’importanza di questa operazione narrativa si misura su un piano extra-letterario: i grandi nomi della Storia e una moltitudine di figure oggi dimenticate occupano nella narrazione spazi contigui andando a costruire un racconto non «anonimo» della Resistenza, ma collettivo, corale e “democratico”.
In conclusione tornano in mente le riflessioni di Philipe Lejeune, massimo teorico delle scritture autobiografiche, il quale osserva come un diario per essere distinto da altri generi di scrittura non dovrebbe conoscere avantesto, ovvero, dovrebbe consistere in una effettiva registrazione dei fatti in presa diretta. Ma è lo stesso critico ad ammettere che chiunque voglia pubblicare i propri diari ricorrerà inevitabilmente a una rielaborazione più o meno sostanziale a seconda delle esigenze. Nel caso di Ada la prima esigenza di rielaborazione è mossa da motivi di ordine storico-politico: è soltanto dopo la guerra che il codice può essere sciolto e quel racconto, libero dalla censura, può essere scritto in modo esteso. Ma Ada non si ferma alla trascrizione distesa e ordinata. In un secondo momento, di cui il dattiloscritto contenuto in archivio è straordinario testimone, l’autrice seleziona i ricordi, li ridispone, talvolta li dilata facendo scaturire dal testo un’opera letteraria che mai rinuncia al racconto schietto e sincero della Storia.
Note:
[1] M. Blanchot, Il libro a venire, Torino, Einaudi, 1969, p. 21.
[2] A. Gobetti – B. Croce, Carissima Ada, gentilissimo senatore: carteggio Ada Gobetti-Benedetto Croce, «Mezzosecolo», N. 7 Annali 1987-1989, Milano, Franco Angeli, p. 46-227.
[3] I. Calvino, Nota, in A. Gobetti, Diario partigiano, Torino, Einaudi, 1956, p. 12.