La principale caratteristica della democrazia è la nonviolenza. A partire dall’uso delle parole. I leader democratici, che si candidano alle elezioni, non sono dispensatori di verità, non si esprimono con un linguaggio aggressivo, assertivo, se non persino minaccioso, e, in caso di elezione devono (dovrebbero) di perseguire l’interesse generale. “Ci sono due categorie: i semplici nostalgici, come documentato dalla quantità di libri che continuano a essere pubblicati, e poi ci sono i gaglioffi che credono che con la violenza si risolvano le cose. Invece la violenza non risolve mai nulla e le dittature finiscono tutte con la guerra e con il sangue” (Bruno Segre)[1].
Il potere per il potere ti si insinua sotto pelle, come un veleno, cambia la postura, i gesti, il modo in cui i governanti si pongono in rapporto con i cittadini che in una società democratica sono chiamati a partecipare, direttamente col proprio voto o indirettamente attraverso la scelta dei propri rappresentanti, al governo del paese. L’esperienza consiglia che è bene non lasciare il compito di occuparsi degli affari comuni soltanto nelle mani di chi sale al potere: “La democrazia vive e prospera solo se i suoi cittadini hanno a cuore le sorti della propria città come quelle della propria casa, che delle città è soltanto una parte”[2].
Come ha esemplarmente affermato Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici, per democrazia s’intende “un insieme di istituzioni (e fra esse specialmente le elezioni generali, cioè il diritto del popolo di licenziare il governo) che permettano il controllo pubblico dei governanti e il loro licenziamento da parte dei governati e che consentano ai governati di ottenere riforme senza ricorrere alla violenza e anche contro la volontà dei governati”[3].
Per approfondire il rapporto tra democrazia e nonviolenza, una guida sicura è Norberto Bobbio. Si tratta di un aspetto meno noto della sua riflessione sulla democrazia che merita di essere posto in rilievo e fatto conoscere. Per Bobbio, la nonviolenza è il valore “in cui la democrazia si distingue essenzialmente da tutte le altre forme di governo”[4]. A questa conclusione egli giunge attraverso la distinzione, che non è una contrapposizione, tra una concezione etica e una concezione procedurale della democrazia, manifestando a più riprese la propria preferenza per la seconda piuttosto che per la prima concezione. Dal punto di vista procedurale, la democrazia è un insieme di regole del gioco stabilite per prendere le decisioni collettive. Le principali regole del gioco che caratterizzano la democrazia e la rendono preferibile alla migliore delle dittature sono la regola di maggioranza e il suffragio universale[5].
Come chiarisce nel De senectute, la “definizione procedurale” è una “definizione minima” che, in quanto tale, “comprende le più diverse forme storiche di costituzioni democratiche; da quelle degli antichi a quelle dei moderni a quelle dei posteri, se governi democratici nel futuro ancora ci saranno, il che non possiamo sapere con certezza”[6]. Si tratta di uno schema teorico, usato analiticamente per distinguere i regimi democratici dai regimi non democratici (oggi si direbbe tra le democrazie liberali e le cosiddette democrazie illiberali[7]), giacché è proprio la mancanza o il non rispetto delle regole del gioco ciò che ci permette di distinguere le democrazie dalle dittature. C’è bisogno di argomentare che fascismo e democrazia sono incompatibili? L’idea di una “democrazia fascista”, e o di un “fascismo democratico”, è una contraddizione in termini.
In estrema sintesi, si può dire che la “definizione minima” definisce la “democrazia tout court, senza aggettivi”[8]. Attenzione: senza aggettivi non vuol dire senza valori. Così intesa la democrazia è “quella forma di governo in cui vigono norme generali, le cosiddette leggi fondamentali, che permettono ai membri di una società, per quanto numerosi essi siano, di risolvere i conflitti che inevitabilmente nascono fra gruppi che hanno valori e interessi contrastanti, senza bisogno di ricorrere alla violenza reciproca”[9].
Penso che non si smetterà mai abbastanza di richiamare l’attenzione su questa che è una caratteristica precipua della democrazia: “Le così spesso derise regole formali della democrazia hanno introdotto per la prima volta nella storia le tecniche della convivenza, volte a risolvere i conflitti sociali senza ricorrere alla violenza. Solo là dove vengono rispettate queste regole l’avversario non è più un nemico (che deve essere distrutto) ma un oppositore che domani potrà prendere il nostro posto”[10].
Coi tempi che corrono in alcuni paesi europei e potrebbero correre in Italia (nel dibattito elettorale è emersa, riferita al nostro Paese, l’espressione: “una democrazia meno liberale”), direi che è opportuno ricordare che “l’Abc della democrazia consiste nel fatto che i due contendenti nella libera gara per governare il paese si considerino non dei nemici ma due avversari, di cui l’uno riconosce all’altro il diritto di stare al governo, se pure per un limitato periodo di tempo, dopo avere vinto le elezioni”[11].
Se c’è una lezione della storia che i vincitori delle elezioni nelle cosiddette “democrazie illiberali”, o che ad esse si richiamano, dovrebbero tenere a mente è che non basta vincere le elezioni per poter stravolgere libertà di stampa, diritti delle donne e delle minoranze. Nelle democrazie liberali le elezioni vengono convocate per stabilire attraverso il voto chi governa il Paese per un periodo di tempo limitato e costituzionalmente regolato: non ci sono vincitori per sempre.
Confrontando l’Italia fascista con la Francia repubblicana, il 12 aprile 1925 Piero Gobetti scriveva: “Gli istituti e la classe politica in Francia funzionano nonostante il sovversivismo isterico della destra. Il fascismo è improprio allo stile politico della Francia, che ha attuata la rivoluzione liberale nella misura possibile in un paese di piccola proprietà rurale e di agiatezza medio borghese”[12]. Storicamente sappiamo che il fascismo non è improprio allo stile politico dell’Italia che non aveva e non ha ancora attuata la rivoluzione liberale.
Note:
[1] “la Repubblica” – Torino, lunedì 5 settembre 2022, p. 2. Intervista a cura di Federica Cravero.
[2] N. Bobbio, Elementi di politica, a cura di P. Polito, Einaudi, Torino 2010, p. VII.
[3] K. Popper, La società aperta e i suoi nemici (1945), a cura di Dario Antiseri, Armando Armando, Roma, 1973, vol. primo, Hegel e Marx falsi profeti, p. 199. Il libro di Popper è presentato in Italia da Bobbio: Società aperta e società chiusa, in “Il Ponte”, 12, 1946, pp. 1039-1046; ora in Id., Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma, 1996, pp. 87-97.
[4] N. Bobbio, Democrazia e educazione, in “Quaderni di documentazione del Centro per l’educazione”, a. I, n. 3, dicembre 1992, senza numerazione di pagina. Si tratta del discorso pronunciato a Torino, il 17 maggio 1990, rivolto agli insegnanti, in occasione dell’inaugurazione del Centro per l’educazione. Una ripresa a fini didattici è stata realizzata da Carmela Fortugno, in Mario Ambel (a cura di), Una scuola per la cittadinanza. Idee, percorsi, contesti, PM Edizioni, Varazze 2020, pp. 171-177. (Insegnare. CIDI).
[5] Per un elenco completo delle “regole della democrazia”, vedi N. Bobbio, Quali alternative alla democrazia rappresentativa?, in Id., Quale socialismo?, Einaudi, Torino, 1976, pp. 42-45. Sulla regola-base della democrazia: N. Bobbio, La regola di maggioranza: limiti e aporie (1981), in Id., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, pp. 383-410.
[6] N. Bobbio, De senectute, (1996), a cura di P. Polito, prefazione di G. Zagrebelsky, Einaudi, Torino, 2006, p. 149.
[7] Nel dibattito elettorale è emersa, riferita al nostro paese, l’espressione: “una democrazia meno liberale”.
[8] N. Bobbio, Quali alternative alla democrazia rappresentativa?, in Id., Quale socialismo?, cit., p. 43. Per Jurgen Habermas, la “definizione minimalista” della democrazia di Bobbio “coglie effettivamente il contenuto normativo dei sistemi politici che nelle società occidentali si sono da tempo organizzati come Stati nazionali”, ma, per il suo carattere “operazionale”, tale definizione “non esaurisce affatto il contenuto normativo del procedimento democratico così come esso appare nella prospettiva ricostruttiva della teoria del diritto”. Per il filosofo tedesco questa concezione è stata elaborata “con più forza” da Dewey. Cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), a cura di Leonardo Ceppa, Guerini e Associati, Milano, 1996, p. 359. La critica di Habermas è rivolta alla “definizione minima di democrazia” così come viene proposta da Bobbio nelle prime pagine di Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984, pp. 4-7.
[9] N. Bobbio, Democrazia, in Id., Elementi di politica, Einaudi, Torino, 2010, p. 111.
[10] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, in Id., Elementi di politica, cit., p. 148.
[11] N. Bobbio, L’Abc della democrazia, in “Nuova Antologia”, a. 131, fasc. 2198, aprile-giugno 1996, p. 29.
[12] P. Gobetti, Destra francese, R1, a. IV, n. 15, 12 aprile 1925, p. 64; Sp, pp. 817-818. Recensisce il volume di L. Marcellin Voyage autour de la chambre du Cartel des Gauches, Nouvelle Librairie, Paris 1925. La copia conservata nella sua biblioteca presenta varie sottolineature.