È l’estate del 1954, i giorni che vanno dalla fine di giugno e la prima settimana di luglio. Italo Calvino, che già dal ’47 collabora con la casa editrice Einaudi, da qualche anno gira l’Italia per conto del suo editore per far conoscere le ultime novità del catalogo, organizzando presentazioni e letture per le “Settimane del libro Einaudi”: «piccole spedizioni promozionali nel profondo Sud, in cui il fervore missionario suppliva la scarsità di mezzi»[3]. Questa volta sarebbe toccato alla Puglia, con incontri e conferenze previste nel capoluogo e nel cuore del Salento. Antonicelli, che da sempre frequenta il gruppo degli “einaudiani”, viene coinvolto nell’iniziativa per animare le conferenze di Bari e Lecce. Sarà l’occasione, troppo a lungo rimandata, di far ritorno nella sua Gioia del Colle, in quella assolata provincia che lo aveva accolto bambino, all’ombra delle due grandi torre normanne riedificate da Federico II, a cento metri dalla casa paterna. Per la riuscita delle serate levantine sono previsti anche gli interventi di alcuni amici della Casa editrice: Carlo Levi, che in Basilicata sta seguendo la produzione di un documentario sui suoi dipinti, e l’ispanista Vittorio Bodini, traduttore per Einaudi di Lorca, che farà loro da guida e confidente. Con loro sono presenti intellettuali autorevoli come Mario Sansone, dell’Università di Bari, e Gastone Manacorda, studioso di Gramsci. «Il più entusiasta del viaggio in Puglia – ricorderà Calvino pochi giorni dopo – fu Franco Antonicelli che inaugurò la “Settimana” a Bari il 30 giugno e la sera dopo a Lecce con una conferenza sulla Storia di una Casa editrice. […] Ma per Antonicelli questo non era un semplice giro di conferenze: era un ritorno alla terra madre. Di padre pugliese, ma non mai tornato in Puglia dall’infanzia, Antonicelli voleva soprattutto, venendo in Puglia, riscoprire un suo mondo»[4]. Così sarebbe stato. Il resoconto che Antonicelli scriverà per narrare l’epifania di quelle emozioni dal sapore «arcaico», quelle sensazioni provate riscoprendo la «bellezza singolare» della Puglia, resteranno tra le pagine più alte e al tempo stesso confidenziali della sua vasta produzione “di viaggio”[5].
Il racconto inizia con la discesa in auto lungo la costa adriatica, in quel tratto di «strada litoranea» che collega Ancona sino alla marina di Pescara, per poi arrampicarsi verso la Daunia:
Dopo Termoli, l’Abruzzo era finito […]. C’innalzammo tra le colline dove splendeva abbacinante il grano mietuto. Questa, pensammo, è la stagione vera delle Puglie, non quella del tempo fresco, ma quella della grande vampa. […] Il silenzio è torrido, le campagne per ore e ore sembrano deserte, le genti sotterrate; le case si sbiancano nella luce, si passa sotto il fuoco di fila delle cicale disseminate come tribù misteriose in chilometri di spazio. […] Le strade s’alzavano e s’abbassavano, ondulando dolcemente. Tagliavano le colline. […] La Puglia era bella, bisognava toccarne il fondo.[6]
La vitalità di Bari, a metà strada tra un passato di privazioni e l’allora modernità scintillante della città nuova, aveva riempito di «ebbrezza e di propositi» i viaggiatori. Ma non è questa, lo si intuisce subito, la Puglia che i due piemontesi d’adozione (comune destino, il loro) sono venuti a cercare, ma quella dei borghi millenari e del suo popolo contadino, delle case linde e bianche, dei palazzi nobiliari e dei sovrani medievali:
Filammo su Alberobello, dove ci aspettavano i trulli. […] Pareva un accampamento medievale o un cimitero di coniche tombe o di cappelle ortodosse. […] Passammo per la stupenda cittadina di Ostuni. Bella, nobile, bianca e rosea, fastosa e gentile, un gioiello superbo. A noi venivano in mente nomi di duchi e principi e viceré. Lì era un crogiolo di civiltà, longobardi, normanni e svevi, angioini e aragonesi, francesi e spagnoli. Quella era la vera Italia, i nostri autentici re erano Tancredi e Boemondo, Roberto il Guiscardo, Federico II e Manfredi[7].
Quella rotta meridiana, quell’esperienza sensoriale e al tempo geomorfologica, non poteva che concludersi dove tutto terminava, oltre Brindisi, oltre la vertigine barocca di Lecce, oltre i mosaici del ‘200 della cattedrale di Otranto, che narravano «in sintesi la storia del mondo»:
Sentivamo quel tratto di terra farsi striscia sottile. […] E quella linea significava nello stesso tempo il Sud e l’Est, punti favolosi dell’Italia. La terra del Salento si faceva più nuda e quasi aspra, mostrava le sue pietre. Ma il mare si inazzurriva sempre più, ormai non era più l’Adriatico, il canale insaponato. E i paesi erano lindi e civili, bianchi come villaggi africani, e gli ulivi erano di un verde metallico, con le teste rovesciate di schianto dal vento marino. […] Ci affrettavamo. Era un’ansia, una frenesia, anzi. Arrivare in tempo, prima della fine del giorno, a toccare il termine dell’Italia, a bagnare un piede nel suo mare d’Oriente. […] Bella singolare era la Puglia, ma la cosa più straordinaria era che correvamo verso un punto preciso, un nome, uno scoglio, in cui con la Puglia finiva anche l’Italia.[8]
Finibusterre rappresentava il capolinea geografico della corsa, non ancora la fine del viaggio. Ora occorreva fare i conti col rimorso d’averla vista troppo in fretta, troppo tardi, e risalirla tutta quanta. Lungo un altro mare, un’altra costa, nuove strade bianche. E poi vicoli e case, altri visi, altri occhi. Un «bisogno d’amore» profondo, improvviso, che proveniva da molto lontano. La Puglia, in fin dei conti, aveva lo stesso volto della sua gente, anche se adesso, a distanza di tanti anni, quello sguardo appariva sconosciuto:
La bellezza sorprendente e sconosciuta della Puglia, il rossore stranamente sanguigno della sua terra e il manto verde che la copriva, il suo protendersi nel mare aperto, nel glauco mare d’Oriente, e le infinite schiatte in lei sepolte, i nostri vecchi re e i sudditi contadini, le belle ragazze, piccole, soffici, dagli occhi grandi, luminosi e neri, dal volto terreo; e la sua pudica civiltà, quel suo essere ingiustamente lontana, come esule – destino di tutto il Sud – dalla storia dell’Italia ufficiale; tutto questo mal pensato, mal visto, in una corsa vertiginosa, ma anche e soprattutto quell’improvviso bisogno umano di amore che prendeva la sua arcana risonanza da un luogo dove tutto pareva terminare[9].
Antonicelli ci impiegherà più di un anno e mezzo per dare alle stampe questo scritto[10]. Un tempo non certo breve, considerando la lunghezza del racconto il suo proverbiale tempismo. Eppure, nonostante il suo contenuto diaristico, reso ancor più accattivante dalle annotazioni sulla presenza misteriosa di due giovani turiste svizzere – il testo appare tutt’altro che improvvisato, ma decantato, meditato, persino militante. Non (o non solo) una breve parentesi estiva, ma il doveroso recupero sentimentale d’una eredità, tanto estetica quanto ideologica, che s’era «ingiustamente» dimenticato – per troppi lustri - di possedere.
[1] Il presente contributo anticipa una parte di un prossimo studio dedicato ad Antonicelli e il Mezzogiorno. Di questo suo ritorno al Sud s’è già parlato in un mio precedente lavoro, Franco Antonicelli. Il rivoluzionario didascalico, a cura di S. D’Onghia, Prefazione di F. Pappalardo, Suma Editore, Sammichele di Bari, 2003, pp. 22-25.
[2] V. Bodini, La luna dei Borboni e altre poesie (1945-1961), in Tutte le poesie, a cura di O. Macrì, Besa editrice, Nardò, 2010, p. 93.
[3] E. Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 51.
[4] I. Calvino, La «Settimana» a Bari e a Lecce, nel «Notiziario Einaudi», a. III, n. 7, luglio 1954, pp. 5-6, ora anche in Appendice a F. Antonicelli, Finibusterre, a cura di A. L. Giannone, Besa Editrice, Nardò, 2021, pp. 66-67.
[5] Cfr. F. Antonicelli, Finibusterre. Racconto, ne «Lo Smeraldo», 30 marzo 1956, ripubblicato nelle edizioni Besa (v. nota precedente) e recentemente, col titolo Un trullo per Rodolfo Valentino, nella ricca raccolta di articoli dedicati ai suoi viaggi in giro per la penisola, Id., D’improvviso l’Italia. Luoghi e personaggi del cuore, Introduzione di B. Quaranta, Passigli Editori, Firenze, 2022, pp. 147-167.
[6] F. Antonicelli, Finibusterre, a cura di A. L. Giannone, cit., pp. 28 e ssg.
[7] Ibidem, pp. 34 e ssg.
[8] Ibidem, pp. 44-45.
[9] Ibidem, pp. 54.
[10] Cfr. n. 4.