Vent' anni fa morivano Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, due delle più significative figure della storia intellettuale e civile del Novecento italiano.
L' estensore di questo breve ricordo ebbe la ventura, ancora adolescente, di incontrarli e di conversare con loro svariate volte quando entrambi erano già quasi novantenni nelle loro abitazioni così come in alcune delle conferenze e degli incontri pubblici cui non si sottraevano.
Perfettamente coetanei, essendo nato Galante Garrone il 1° ottobre del 1909 e Bobbio alcune settimane dopo, il 18 ottobre; il primo era solito redarguire il secondo per il suo eccesso di pessimismo antropologico e, nel fare ciò, era solito dirgli scherzosamente: "Voi giovani, ascoltate noi vecchi che ne sappiamo di più !".
Nel ventennale della loro scomparsa non mi pare che sia stato sempre reso loro il dovuto ricordo, perpetuandosi talvolta la riduzione delle loro figure a due schematismi contrapposti ma egualmente deformanti.
Da un lato la loro tramutazione quando erano ancora in vita in oleografici santini di una sinistra in cerca di padri nobili ma che della loro altezza umana e intellettuale nulla ha serbato; dall' altra, la critica acrimoniosa e becera di una destra incolta che li ha persino volti in caricatura come alfieri di un' ideologia paracomunista, quando basta leggere i loro scritti per comprendere come le loro idealità fossero sempre saldamente innervate su una incrollabile base liberaldemocratica, aliena da estremismi e da fanatismi.
E se Galante Garrone definiva se stesso "il mite giacobino", con felice ossimoro che ben rendeva la sua passione di libertà ricondotta sempre nell' alveo della ragione, Bobbio tesseva l' "elogio della mitezza", sconfessando apertamente i tentativi di travisamento del suo pensiero.
Il nome di Bobbio resta ancora un imprescindibile punto di riferimento per chi voglia confrontarsi con la cultura italiana, di cui fu, nella seconda metà del Novecento, sicuramente il maggiore intellettuale ma non so quanti lo abbiano veramente letto in profondità, senza limitarlo nella dimensione univoca del politologo e del filosofo del diritto.
Con l' abito del "moralista" nel senso più nobile e oggi incompreso del termine Bobbio dette contributi che travalicarono di gran lunga il mero ambito della "politica culturale" ("Politica e cultura" si intitola uno dei suoi libri più belli, uscito nel 1955 nel fuoco della lotta ideologica e intellettuale), già quando, nel 1944, dette alle stampe il suo primo grande saggio, "La filosofia del decadentismo", severa refutazione di Heidegger e di Jaspers, non tanto dei loro esiti speculativi, quanto delle ricadute morali nefaste del loro pensiero, teso ad infiacchire e disgregare l'individuo dissociandolo dal tessuto dell'universale.
E, perfino nella sua produzione degli ultimissimi anni, si è dato più rilievo agli interventi politologici in senso stretto che al suo più profondo lascito filosofico, quel "De Senectute" scritto nel 1996, alle soglia della novantina, che resta un'altissima testimonianza di consapevolezza umana e, insieme, lo spalancarsi del suo pensiero a una prima inedita tensione metafisica, con pagine sul tema della nostra mortalità che non esiterei a definire fra le più profonde e intense del secolo.
Più dimenticato, purtroppo, il nome di Galante Garrone, di cui andrebbero riletti i grandi libri storici, per lo più focalizzati tra la Rivoluzione Francese e l' età del Risorgimento, e i tantissimi e sempre splendidamente scritti articoli di polemica civile (tra i tanti ne ricordo uno, bellissimo e ammirato da Primo Levi, sui forni crematori della ditta Topf e figli che contribuirono all' industria dell' Olocausto).
Un lascito prezioso e fra i più limpidi e coerenti che ci abbia lasciato la cultura italiana della seconda metà dello scorso secolo, purtroppo in parte obliterato dall' essere la nostra una nazione smemorata e incurante dei propri retaggi migliori.
Al di là delle loro figure intellettuali, i due grandi uomini erano completamente diversi nel carattere e nell' indole.
Galante Garrone era nel privato loquacissimo e di una semplicità omerica, priva di schermi come di infingimenti.
Ricordo una caldissima sera dell' agosto 1997 in cui gli feci visita con un amico mio coetaneo in cui ci intrattenne per oltre tre ore con aneddoti di ogni tipo sulle figure umane e intellettuali che aveva incrociato nel proprio percorso, da Pavese a Salvemini, da Croce a Calamandrei, sempre con un eloquio appassionato, talvolta esondante, e una vigoria che gli anni non avevano minimamente appannato.
Sempre disponibilissimo verso i giovani e pieno di curiosità umana, non si sottraeva ad inviti nelle scuole e ad incontri con chiunque volesse incontrarlo e parlargli, con un' umiltà profonda e improntata ad uno squisito sentire che conforta ancora oggi nel ripensarci.
Il primo impatto con Bobbio era invece decisamente diverso. Il filosofo guardava con occhi grifagni l' interlocutore e la sua figura austera, il suo eloquio ben più asciutto e talora la sua umoralità potevano dapprima incutere una certa soggezione.
A proposito della sua umoralità, lo vidi una volta, al termine di una conferenza che tenne al cinema Massimo di Torino, perdere le staffe nei confronti di una professoressa che gli aveva rivolto una domanda di sconcertante banalità, per poi rabbonirsi poco dopo.
Parlandogli in un contesto privato ci si accorgeva invece di come Bobbio fosse una persona molto umile e molto buona, la cui costitutiva timidezza e il quasi imbarazzo per essere stato tramutato in un Maitre à penser si traducevano in una scorza di distacco, in una parvenza di quasi scontrosità.
Parvenza, appunto, perché Bobbio, pur mantenendo tutto il suo rigore e la sua ritenutezza caratteriale di persona schiva e insofferente degli esibizionismi e delle ostentazioni di qualsivoglia natura, si dimostrava invece anch' egli umanamente curioso e di estrema semplicità di modi e di costumi.
Chi scrive ha ancora nitidi nella memoria dopo tanti anni i loro volti e i loro sguardi e riode distintamente il suono delle loro voci e vorrebbe ricordarli in queste poche righe come esempio luminoso di quel che l' uomo di cultura dovrebbe essere e oggi, purtroppo, sempre più raramente è.