(Tratto da P. Polito, Il dovere di non collaborare, SEB 27, Torino 2017. Con un commento di P Polito, Il coraggio dei miti)
La prima domanda che mi ero posto quando ricevetti il libro fu: «Ancora un libro sulla Resistenza?». Ma che razza di libro[1] è? C’eravamo detti – tra noi del Circolo della Resistenza[2] – tante volte da essermi persuaso, che la resistenza era ormai oggetto di storia. Libri storici scritti magari da chi da chi non aveva fatto la resistenza, ma sapeva fare lo storico. Lavori da Istituti storici della Resistenza, da riviste: “il movimento di liberazione”[3]. Magari bibliografie, come quella di Pansa[4], sussidi agli studiosi futuri. Ma questo di Fusi[5] non era un libro di storia, ma un libro di ricordi. Ricordi dopo 25 anni? Il tempo dei ricordi non era finito? Quelli che avevano qualcosa da raccontare dovevano ormai averlo raccontato. L’ultimo libro di ricordi di vita partigiana che mi era accaduto di leggere erano i Piccoli maestri di Meneghello[6], una storia tra il ricordo e il romanzo. Un genere che aveva avuto la sua fortuna da Calvino[7] alla Viganò[8], ma ormai sembrava esaurito. Il libro di Fusi non aveva nulla di romanzesco[9]. Raccontava fatti, solo fatti, anzi aveva la pretesa di riportare dialoghi, battute, pezzi di colloquio, così come erano avvenuti e come erano stati pronunciati. Dunque proprio un libro di ricordi. Ma vi è modo e modo di scrivere un libro di ricordi. C’è il diario, il puro diario, obiettivo, distaccato, la cronaca degli avvenimenti. Ricordo, per esempio, quello di Quazza[10]. La visione di chi vede solo una piccolissima parte del quadro, sa benissimo che questa piccolissima parte dovrà devono essere integrate dalla visione storica, appunto, del quadro intero. Ci sono le memorie del protagonista o di chi ha avuto una parte importante nello svolgimento dei fatti, penso ad esempio, al libro del generale Cadorna[11] o di Longo[12]. Il ricordo qui diventa già un tentativo di storia, di visione globale: gli avvenimenti sparsi vengono collegati intorno ad un nucleo centrale, ad una prospettiva. Non c’è ancora la storia, forse, ma non c’è più la cronaca: c’è un principio di unificazione mediante un filo conduttore anche se questo principio di unificazione resta sul piano d’un interpretazione personale. Ci sono infine le memorie – esame di coscienza, più monologo interiore che racconto, in cui l’autore s’interroga sul significato di quel che sta facendo e vivendo e più che dare risposte pone interrogativi al lettore, e inoltre pure allo storico futuro. Perché combatto? Chi sono i miei amici? Chi sono i miei nemici? Perché ho accettato questa parte, così diversa e lontana da quella che avevo rappresentato vivendo nella società? Perché questa guerra, perché la violenza indiscriminata? È giusto uccidere, fare imboscate, rischiare di far cadere nelle insidie persone innocenti? Direi che il libro di Fusi non appartiene a nessuno di questi tre generi di memorie.
1. Non è una mera cronaca, giorno per giorno, dei fatti accaduti anche insignificanti. Ha per tema centrale uno dei grandi episodi della guerra di liberazione. Quello che avviene prima (una cinquantina di pagine) è una preparazione all’episodio, va a finire quasi necessariamente, quasi fatalmente, nell’episodio centrale, che occupa da solo quasi metà del libro. Si notino le battute d’inizio, tra Fusi e Guglielminetti[13]: l’argomento è la costituzione del comando militare, qualche mese prima (quando? non ci sono mai date se non sbaglio, in queste prime pagine, in modo che il lettore non sa esattamente quando l’azione comincia). Quel che viene dopo è un’appendice in tono minore che sembra fatta apposta per far saltare agli occhi, e al cuore del lettore le pagine finali – il martirologio –, l’appello dei morti, che è la vera conclusione, dopo una pausa e dopo il momento d’attesa, del libro, che è il libro del martirio.
2. Non è la testimonianza di un protagonista, di un personaggio storico, che nel momento in cui compie un gesto, ha coscienza che quel gesto può diventare un fatto storico, un fatto, come direbbe uno storico di mestiere, storicamente rilevante. Anzi direi che uno dei propositi di Fusi, chiarissimi anche se non dichiarati, è quello di non apparire affatto come un protagonista, di mettersi da parte, di far parlare gli altri, di presentarsi quasi come uno che c’è capitato per caso; suo malgrado, come il pittore che si raffigura nella sacra rappresentazione, uno spettatore qualunque, uno dei tanti che si sono messi lì per riempire il quadro. L’autore non è il protagonista, è semplicemente un testimone, uno che ha visto, ha sentito, ed ora può raccontare veridicamente come sono andate le cose. L’intenzione del libro è racchiusa nella frase con cui termina l’episodio centrale: “Dio ha voluto che dalla strage uno uscisse indenne, uno che vivesse per rendere testimonianza degli eroi; soltanto per questo tu sei salvo”[14].
3. In più il libro non è un monologo interiore, né una confessione, né una giustificazione morale. Non che i problemi non affiorino. Nelle prime pagine di fronte a coloro che si sono buttati a capofitto nella lotta disperata, appare e scompare continuamente la domanda: sono morti? o sono eroi? Una delle pagine moraleggianti più azzeccate di un libro che non vuole essere un libro moralistico è quella che svolge il tema: “L’effetto dei primi contatti con l’eroismo è disastroso”[15]. A un certo punto viene la risposta giusta: “Cercavo qualche ragione: delitti contro natura, quelli di Hitler, non possono essere contestati che da gente fuori della natura: gli eroi”[16].
Ma la risposta giusta è appena pronunciata, e sembrerebbe definitiva, che segue subito un dubbio che rimette tutto in questione: “o l’eroismo è forse fine a se stesso?” “Tanto mi appariva inspiegabile e perfino irritante”[17]. Affiorano alcuni problemi di fondo, ma il libro, ripeto, è la narrazione esteriore di un episodio saliente. Non c’è un personaggio, l’autore, ci sono vari personaggi. Anzi, una galleria di personaggi, oltre i maggiori, un avvicendarsi rapido di attori minori, che appaiono e scompaiono, descritti – e qui sta a mio parere una delle caratteristiche del racconto – non tanto attraverso una figurazione dei loro tratti, e neppure di quel che fanno, ma di quel che dicono. Attori nel senso proprio della parola perché vivono e si esprimono nella battuta, anche in una sola battuta, come quel maggiore Federico Pezzetti che incontrato nel centro della città dice: “Scusi, è meglio che lei si allontani. Aspetto una spia per ammazzarla. Può darsi che ci sia un po’ di sparatoria”[18]. Un libro con tanti personaggi, dunque, legati tra loro da un unico destino di morte. Qui dobbiamo cercare, credo, il senso del libro. Una vicenda tragica, una delle più tragiche della guerra di liberazione, per la sua fulmineità e l’importanza dei condannati, che termina con dei fucilati. Eppure dalla narrazione esula ogni intento agiografico, con uno stile volutamente sdrammatizzante. Il dramma deve risultare dalle cose stesse. La fulmineità dell’evento dalla rapidità, dalla secchezza del racconto. La grandezza delle persone dai loro gesti essenziali, dalle loro parole che vogliono essere assunte come frasi esemplari, lapidarie, da ricordare e tramandare. Si può benissimo essere seri, terribilmente seri, senza usare parole grosse; giudici severi senza maledizioni e o imprecazioni; descrivere eventi straordinari con un linguaggio quotidiano. I martiri parlano il linguaggio di tutti i giorni. Coloro stessi che hanno scritto quelle bellissime lettere che oggi sono diventati brani di antologia, si scambiano frasi scherzose, mantengono sino all’ultimo un’intima serenità di spirito, un certo buon umore da uomini sani e diritti che accolgono la morte, e quella morte, come un fatto ordinario[19]. Mi pare che quella riflessione (inspiegabile e persino irritante) sull’eroismo vada tenuta presente. L’eroismo è forse cosa tanto grande che l’unico modo di parlarne è di parlarne in modo anti-eroico. Stile eroico più contenuto eroico, uguale a retorica. La resistenza è stata una guerra senza retorica, perché senza bandiere, senza galloni e senza divisa (i discorsi sono venuti dopo, troppi, e ce l’hanno guastata). Fusi ha il merito di averlo capito, e ha scritto un libro che, come dice bene Alessandro Galante Garrone nelle prime righe della presentazione ha un accento tutto suo e parla di pagine semplici e dimesse[20]. A me viene subito in mente il modo con cui gli inglesi indicano questo parlare dimesso di cose gravi, con un’intenzione di autoironia, understatement. E direi subito che mi viene in mente perché corrisponde a un tratto tipicamente piemontese, che si esprime in frasi come “esagerùma nen” (o “pijla pì bass”)[21]. Mi sono domandato se poi tutte queste battute, queste botte e risposte, fossero vere, o soltanto sensazionali, o magari ricercate, senza volerlo, nel primo ricordo con un po’ di fantasia. Sappiamo bene che l’autore ha un’allegria contagiosa. E può darsi che ci sia un po’ di Valdo Fusi in tutti i suoi personaggi, e li abbia raffigurati a sua immagine e somiglianza. Sono tutti simpatici, quasi quasi anche i personaggi negativi. Questo dico, per dire che il libro è genuino. E pur essendo una storia vera, raccontata dal vero, non è una storia impersonale. Il racconto ha un taglio personale. Le cose sono viste intenzionalmente con una certa prospettiva: la scherzosità, l’umorismo, l’attenuazione verbale, la stringatezza che non lascia spazio alle divagazione, alle ampollosità, alle amplificazioni puramente esornative non sono un espediente letterario, una ricerca di effetto, ma un modo di vedere le cose, di comprendere ed amare (e di far comprendere e di far amare) gli uomini. Forse soltanto ora dopo queste osservazioni, sono in grado di rispondere alla domanda da cui ero partito: “Che tipo di libro Fusi ha voluto scrivere?” Non un libro di storia, non un romanzo, non un libro di memorie, non un esame di coscienza, piuttosto una storia esemplare, un racconto – favola, la favola vera di uomini di fronte alla morte. Così si spiega perché esso appare dopo 25 anni. Il libro, che può sembrare scanzonato, qualche volta persino irriverente, troppo spigliato, troppo disinvolto per il tema della morte, e di quella morte, ha il suo segreto. E questo segreto va cercato nel bellissimo brano di Montaigne posto ad epigrafe: “Ci sono morti coraggiose e fortunate…”. Sentimento di stupore e di ammirazione. Un racconto esemplare, dunque che è nato dall’ammirazione e vorrebbe trasmettere questo sentimento di ammirazione in coloro che lo leggeranno.
Il coraggio dei miti
di Pietro Polito
Il giorno di Pasqua, domenica 27 marzo 2016, a 62 anni dalla fucilazione al Martinetto di otto componenti del Comitato militare piemontese del CLN, ho riletto i brani che Ada Gobetti nel Diario Partigiano dedica all’eccidio. Il 5 aprile 1944 Ada scrive: “li hanno arrestato tutti... mentre si recavano a una riunione nella sacrestia di San Giovanni: avevan con sé carte, documenti, denaro. La loro posizione è gravissima. Hanno imbastito una specie di processo: ed evidentemente per dare un esempio intimidatorio li hanno condannati a morte. Si spera ancora d’ottenere una grazia, un rinvio che permetta di salvarli in qualche modo. Ma la speranza è poca. Gli amici, che ho visto oggi, sono letteralmente disfatti”.
E il 6 aprile 1944 aggiunge: “Li hanno fucilati tutti stamane all’alba, al Martinetto. Una volontà di battaglia esasperata fino al furore mi scuote e capisco che cosa vuol dire vendicare i nostri morti. Oggi Lisetta, Mario, Lea sono stati da me a lungo. Dopo simili colpi si sente il bisogno di star vicini per sopravvivere, per resistere”.
Il tempo non ha scalfito il valore simbolico del Martinetto. Ricordare il coraggio di Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Errico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano, Giuseppe Perotti, vuole essere un omaggio a quanti e a quante, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno dato e danno la vita per la libertà.
A chi volesse meglio intendere il significato di una pagina importante della Resistenza in Italia, consiglio di leggere e o rileggere il libro di Valdo Fusi, Fiori rossi al Martinetto. Il processo di Torino – aprile 1944, prefazione di Alessandro Galante Garrone, Mursia, Milano 1968. Il libro di Fusi ha avuto numerose edizioni presso Mursia dal 1968 fino al 1973. Segnalo ora l’edizione, con una prefazione di Marcello Maddalena, presso Riccadona, Torino 2011.
L’autore (Pavia, 9 maggio 1911- Isola d’Asti, 2 luglio 1975), dopo l'8 settembre prese parte alla Resistenza e rappresentò la Democrazia cristiana nel Comitato militare piemontese del CLN. Il 31 marzo 1944 Fusi venne arrestato nel duomo di Torino insieme con quasi tutti i membri del comitato stesso. Accusato di "attentato contro l'integrità, l'indipendenza e l'unità della Repubblica sociale italiana", venne assolto per insufficienza di prove dal tribunale speciale al famoso processo di Torino.
In un testo inedito, datato: 14 ottobre 1968, conservato al Centro studi Piero Gobetti, che pubblichiamo in appendice, Norberto Bobbio ha definito Fiori rossi al Martinetto “il libro del martirio”. Inoltre egli sottolinea che il proposito di Fusi è di mettersi da parte, di far parlare gli altri, di “presentarsi quasi come uno che c’è capitato per caso”, “un testimone, uno che ha visto, ha sentito, ed ora può raccontare veridicamente come sono andate le cose”.
Come scrive Marcello Maddalena nella prefazione alla nuova edizione, Fiori Rossi al Martinetto “non è il libro né di uno storico né di un politico, anche se è fondamentale per uno storico che voglia ricostruire le vicende di quegli anni e per un politico disponibile a trarne ispirazioni ideali; e non è nemmeno il libro di un erudito o di un uomo di cultura con la pretesa o l’ambizione di insegnare qualcosa a qualcuno”. Fiori Rossi al Martinetto è un libro morale, non moralistico, che senza alcun intento agiografico, con uno stile volutamente sdrammatizzante, a volte scanzonato e umoristico, con un linguaggio quotidiano, anche se gli eventi descritti sono straordinari e tragici, s’interroga sul significato della Resistenza.
Uno dei temi posti in rilievo da Fusi è quello dell’eroismo. Dopo avere affermato che “l’effetto dei primi contatti con l’eroismo è disastroso”, scrive: “Cercavo qualche ragione: delitti contro natura, quelli di Hitler, non possono essere contestati che da gente fuori della natura: gli eroi”. Egli sa che una risposta giusta, definitiva, non c’è. Permane il dubbio: “O l’eroismo è forse fine a se stesso? Tanto mi appariva inspiegabile e perfino irritante”.
L’argomento è ripreso da Bobbio nelle pagine poste in appendice. Egli osserva che “l’eroismo è forse cosa tanto grande che l’unico modo di parlarne è di parlarne in modo anti-eroico”. Dalla combinazione di stile e di contenuto eroico nasce la retorica. Ebbene, “la resistenza è stata una guerra senza retorica, perché senza bandiere, senza galloni e senza divisa (i discorsi sono venuti dopo, troppi, e ce l’hanno guastata)”.
La Resistenza ha avuto i suoi eroi, ma è stata contemporaneamente e soprattutto un movimento di uomini e donne comuni che hanno saputo scegliere la parte giusta. Accanto all’omaggio agli eroi, Fusi “spende parole di pace e di umana e cristiana comprensione anche per i deboli e per i miti” (M. Maddalena) e “anche nei suoi nemici è pronto a spiare il più piccolo barlume di nobiltà ed umanità” (A. Galante Garrone).
Fusi è un uomo di fede, una fede silenziosa, né ostentata né declamata che in Fiori rossi al Martinetto parla come un uomo mite. Negli uomini del Martinetto egli scorge il coraggio dei miti più che quello degli eroi, i miti che nell’ora della scelta hanno saputo ritrovare in se stessi i valori più antichi e più semplici: il disinteresse, la generosità, la solidarietà, l’integrità morale.
NOTE:
[1] A margine: “letteratura sulla resistenza”. Le citazioni si riferiscono all’edizione 1968, che ho potuto consultare nella copia conservata nella biblioteca di Norberto Bobbio.
[2] Il Circolo della Resistenza di Torino fu costituito da un comitato promotore composto da Franco Antonicelli, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Ada Gobetti, Piero Pieri, che nel maggio 1959 inviò una lettera Agli amici della Resistenza con la quale si invitava all’adesione e si informava dell’inaugurazione della sede del Circolo. In una successiva assemblea dei soci, avvenuta il 22 giugno 1959 presso la sede dell’ANPI di corso Francia 11 a Torino, fu approvato lo Statuto e Norberto Bobbio fu nominato Presidente del Circolo. Notizie sul Circolo della Resistenza si trovano nell’Archivio Norberto Bobbio, conservato presso il Centro studi Piero Gobetti e nell’Archivio Guido Quazza, conservato presso l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”.
[3] “Il movimento di liberazione in Italia”. Rivista dell’INSMLI, fondata nel 1949, nel gennaio 1974 assume il titolo: “Italia contemporanea”, attualmente è diretta da Nicola Labanca.
[4] Giampaolo Pansa, La Resistenza in Piemonte. Guida bibliografica 1943-1963, Giappichelli, Torino 1965.
[5] Valdo Fusi, Fiori rossi al Martinetto. Il processo di Torino, prefazione di Alessandro Galante Garrone, Mursia, Milano 1968.
[6] Luigi Meneghello I piccoli maestri, Feltrinelli, Milano 1964 (“I Narratori di Feltrinelli” n. 44).
[7] Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1954.
[8] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, Torino 1949 (“Piccola Biblioteca Scientifica-letteraria”, n. 9).
[9] A margine “Storia romanzata?”.
[10] Guido Quazza, Un diario partigiano (1943 – 1945), in Id. , La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Giappichelli, Torino 1966, pp. 127 - 247.
[11] Raffaele Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla Liberazione, Milano 1948 (“La seconda guerra mondiale. Collezione di memorie, diari e studi, XXVI).
[12] Luigi Longo, Un popolo alla macchia, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1947.
[13] V. Fusi, Fiori rossi al Martinetto, cit., pp. 23-28.
[14] V. Fusi, Fiori rossi al Martinetto, cit., p. 179.
[15] Ivi, p. 39.
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] Ivi, p. 45.
[19] Si riferisce al volume Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, più volte ricordato, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, prefazione di Thomas Mann, Einaudi, Torino 1954.
[20] A. Galante Garrone, Presentazione, in V. Fusi, Fiori Rossi al Martinetto, cit., p. 5.
[21] In margine: “non alzare il tono, attenuazione, non mettere, anzi togliere ogni accento”