Benedetto Croce moriva 70 anni fa e con lui moriva anche la filosofia sistemica: nella liquefazione del postmoderno l'idea del pensiero come architettura organica sarebbe andata definitvamente perduta.
Con grande pregnanza simbolica fu notato dal suo più acuto interprete, Gennaro Sasso, come, quando le bombe alleate si abbatterono su Santa Chiara a Napoli nel 1943, nel tragico rogo parve perire altresì l'ultima grande Filosofia della Storia.
Croce fu rimosso per decenni dalla cultura italiana in seguito ad ipoteche di natura schiettamente ideologica, senza un serio confronto di carattere speculativo, ripetendo a macchinetta una vulgata diffusa da Gramsci (intellettuale la cui portata civile nessuno intende sminuire ma che, appunto, rientra nel novero degli intellettuali e dei pubblicisti, in nessun modo in quello dei filosofi).
Ora che i valori e le proporzioni si sono riassestate e le ideologie frantumate si può finalmente riconsegnare Croce alla sua dimensione effettiva di grande classico del pensiero e dello stile.
Nessuno eserciterà più la filosofia come la esercitò Croce, tentando una quadratura armonica tra le categorie spirituali ed edificando un sistema che non si era visto altrettanto complesso e interconnesso tra le sue parti dal tempo di Hegel. E nessuno, nella sua grandezza come nei suoi limiti, potrebbe più praticare la cultura come la praticò lui, scrivendo per lo più da solo per mezzo secolo La Critica e spaziando con onniscienza quasi inverosimile in ogni ambito dell'umanesimo.
Quando Contini scrisse che quello che Croce poté fare nelle discipline storiche e umanistiche non ha forse alcun precedente nella storia della cultura e quando Labriola lo definì "un Leviatano delle scibile" erano ben lontani dal commettere un'iperbole.
Croce si illuse di storicizzare integralmente la filosofia, di saldare in una circolarità armonica Filosofia e Storia portando a termine la geniale e germinale intuizione vichiana della conversione del Vero col Fatto. Ma, nella parabola tragica dell'ultimo Croce come uomo e pensatore, in realtà quel circolo si incrina e anche l'altra e parallela circolarità delle forme dello spirito nella dialettica dei distinti finisce per sfaldarsi e la categoria della Vitalità anziché porsi come slancio gioioso dell'utilità e degli istinti, finisce per convertirsi in disvalore, in presenza di un male e di una negatività non dialettizzabili.
Altroché l'ottimismo e l'olimpica serenità prospettata da quanti Croce lo conoscono solo dai manuali o da certa vulgata marxista !
A differenza di molti grandi pensatori che composero un quadro concettuale e poi gli si affezionarono non modificandolo più, Croce seguitò a tormentarsi incessantemente nell'edificazione della sua grandiosa cattedrale gotica, scosso da dubbi e angosce che poi il suo meraviglioso stile celava e sopiva nella compostezza della forma.
L'angoscia fu sempre la radice prima da cui scaturì la filosofia crociana, angoscia scaturita da circostanze biografiche (il terremoto di Casamicciola in cui perse adolescente la famiglia e in cui trascorse lunghe ore sotto le macerie, la perdita della compagna di 20 anni Angelina Zampanelli) e segnata dal tarlo ricorrente del suicidio che spesso affiora nelle pagine dei Taccuini di lavoro.
L'ultimo Croce, il più intenso e il più grande, raggiunge talora venature gnostiche parlando della "gabbia del mondo" o della "carcere della vita", come in quel fulmineo Soliloquio che resta una delle grandi pagine della filosofia morale di ogni tempo.
Alla tragedia esterna di un mondo in dissoluzione nel Croce anziano si affianca un'altra e interna tragedia, di un sistema che si ribella al suo creatore e lo costringe senza posa a ridefinirlo, scompigliando l'illusione di un approdo a uno "storicismo assoluto" in cui filosofia e storia coincidono e la prima è il momento metodologico della seconda.
Croce sa che le categorie sono eterne e fuori dal tempo e proprio nell'apparente armonia del circolo si vengono a creare delle scorie metafisiche che ricollocano la filosofia in una dimensione atemporale e sovrastorica. Nel filosofo che mosse guerra alla metafisica si insinua nuovamente proprio la radice prima di ogni pensiero, che è irriducibilmente metafisica e Croce si libra oltre lo storicismo e le ricadute scolastiche del suo pensiero.
La filosofia era autoterapeutica, compiva la catarsi dell'angoscia nella quadratura un pensiero magnificamente organizzato ma, seppur sopita, quell'angoscia riaffiorava con irresistibile potenza, non accarezzata come nella variante esistenzialista (quella che Bobbio, riferendosi a Heidegger e Jaspers, chiamò la filosofia del Decadentismo), ma combattuta e incanalata nell' alveo di una ragione che la placasse.
Croce anziano disse che quanto alle sorti future della sua filosofia essa sarebbe stata come tutte le altre un singolo momento della vita del pensiero, presto sorpassata dall' unda quae supervenit undam, ma che, nondimeno, sarebbero restate le verità che le era stato "concesso di stabilire". In un atto di umiltà trascendentale egli sapeva bene della non appartenenza a noi stessi nemmeno dei nostri pensieri e delle nostre opere, che proprio quando reputiamo nostre sono insieme non nostre, perché frutto dell'Universale che si è degnato di visitarci.
Proprio nel bisogno di riconnettere l'individuo all'Universale si annidava la ragione profonda anche del Croce minore, che amava ritessere le vite di personaggi oscuri o far risplendere di nuovo le gemme nascoste di poeti dimenticati, conscio che un granello di santità e di eroismo si cela anche nelle biografie più umili e ignorate e che un granello di grande poesia rifulge talora anche in opere trascurate e neglette. Egli amava dire che non c' è persona, per umile che sia, da cui non possa giungerci un atto o un detto che ci faccia arrossire al paragone.
Il tempo è galantuomo e gli anni hanno reso giustizia a Croce e al suo grande sodale e poi rivale Gentile, riassegnando il posto eminente che spetta loro nella storia del pensiero. Ma la parabola di Gentile (anch'egli straordinario pensatore a lungo frainteso se non stuprato nell'essenza del suo pensiero) si fuse con quella del fascismo ed egli pagò la sua fedeltà al regime con la vita. La parabola di Croce, invece, fu ben più feconda anche di ricadute civili e la sua idea della Libertà come categoria metapolitica, in qualche modo premessa e fondazione della politica come della vita morale, rimane valida e attuale oltre ogni contingenza
Viene da dire che Croce non fu tanto un hegeliano, come ripetono i pappagalli che per professione fanno gli autori di manuali, quanto un neoplatonico inconsapevole e che le sue idee dell'Arte e della Libertà abbiano appunto la purezza incontaminata delle Idee dell'Iperuranio platonico, a perenne testimonianza che ancora ci dibattiamo nel dualismo tra Essere e Divenire della filosofia antica. Facile sorriderne da parte degli adepti del "segno" in estetica o del liberismo (che Croce ben distingueva dal liberalismo!) in politica, di fatto dalle categorie non si può prescindere e sono esse a dare il loro stampo eterno al nostro vivere, oltre il gioco del divenire e delle forme del mondo.