Distanti dal mettere in discussione la serietà della pandemia, ripercorriamo l’esperienza passata, come chi ha subito un trauma, andando a ritroso alla ricerca di dettagli sfuggiti, rimossi. C'è da chiedersi se fa più male il virus o le informazioni che girano intorno ad esso.
La strategia queer consiglia di vivere la pandemia, proprio loro che sono visti come virus -"non indottrinate i giovani sul gender"-, vengono dai margini a dire che il problema è lo stigma, la vergogna di ciò che non è normale e anche se non sono i miti costruiti sopra le malattie a renderle mortali come viene affrontata socialmente la quarantena?
Quei 100.000 morti sono i corpi che per la società potevano morire, quei corpi che vengono visti attraverso una metafora come vittime di una guerra contro un cattivo, un diverso da loro, un virus terribile che ci ha invaso e che ora reclama la nostra testa. Il nemico sarebbe la vita o l’interpretazione che ne viene fatta? E se quel virus fossimo noi? Contro e non con, divisi piuttosto che uniti, segregati e bombardati di notizie inutili piuttosto che intenti a scrivere racconti, poesie e musiche da ballare e condividere con l’altro da sé, perché è sempre più facile temere invece che osservare?
Per quanto non abbiamo risposte, una domanda ve la proponiamo: perché non possiamo essere quello che siamo? molteplicità mutanti, della stessa materia dei sogni, degli stessi atomi delle galassie, cangianti salamandre, ondosi oceani e come le nuvole attraversare i nostri umani confini? perché dobbiamo temere di diventare la somma delle nostre paure, quando già lo siamo?
Non siamo forse mostruose creature come la nostra madre, la mostruosa natura? essere mostruose non ci salverà dalla morte perché la morte è parte di noi, la domanda da porre è fin dove l'essere umano è disposto a spingersi per sopravvivere e quanto siete disposti a sacrificare? ma soprattutto chi stiamo sacrificando?