L’alternativa di un pensiero tragico

di Elisa Destefanis


A un anno dallo scoppio della pandemia, siamo ancora alle prese con il virus Covid-19. Il pessimismo è comprensibile e, in parte, condivisibile. La situazione pandemica ha costretto l’uomo a fermarsi, a mettersi in ascolto del richiamo della realtà ai suoi limiti, evidenziando la stretta connessione tra dimensione bio-ecologica e dimensione etico-politica del vivere umano. Al pessimismo continuo a preferire l’alternativa di un pensiero tragico, conscio dei caratteri strutturali della nostra esistenza e volto alla ricerca di una razionalità dinamica. In questa occasione si possono introdurre almeno due considerazioni. Prima considerazione: la razionalità ricercata da un pensiero tragico richiede l’impiego di un’intelligenza non solo logica e tecnologica, ma anche emotiva.  Se “la nostra intelligenza è la nostra principale risorsa”, occorre interrogare le nostre emozioni, esprimerle, comunicarle. Prendiamo, ad esempio, la paura. Come è mutato questo sentimento nel corso della pandemia? Che cosa – ed eventualmente, chi – ha determinato le sue variazioni d’intensità? Quali sono gli effetti di queste variazioni sulla situazione attuale? Quali altre emozioni concorrono a determinare l’ansia e la depressione dilaganti? La seconda considerazione riguarda la visione del virus come “nemico assoluto”. Prendendo per buona l’attuale (e surrettizia) riduzione dell’analogia pandemia-guerra a identità, tale definizione riporta alla mente alcune parole di Carl Schmitt: laddove il nemico diventa assoluto, un “mostro disumano”, la direzione è quella dell’“annientamento di ogni vita degna di esistere”. A questa assolutizzazione, Schmitt oppone la relativizzazione del nemico. Provando ad applicare tale pensiero alla situazione pandemica, ritengo che anche questo nemico invisibile e mutevole non debba essere assolutizzato – e come tale connesso a emozioni eccessivamente intense e incontrollabili, che difficilmente possono ispirare il “vivere in modo vigile”. Pertanto, di fronte alle conseguenze sulla salute psicologica provocate della pandemia – e non solo sul sistema sanitario e sulla salute fisica dei cittadini – non ritengo che la cultura possa dirsi del tutto impotente. Soprattutto, rispetto a questo problema, urgono una psicologia, una biologia e una tanatologia, così come occorre promuovere le diverse forme dell’arte, accanto allo sviluppo della scienza e della politica.

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