La riflessione di Pietro Polito sul «Vivere nella pandemia» è attraversata da un interrogativo trattenuto, ma sempre latente, sul ruolo della cultura. A che cosa serve la cultura dinanzi al meccanico trasmettersi di un virus, alla solitudine degli esseri umani, alla paura del contagio e delle sue conseguenze? La questione resta perlopiù implicita. Forse anche per il fatto che, tra le risposte plausibili, occorre considerare l’eventualità che la cultura non serva a niente – come in effetti è accaduto dinanzi a tante manifestazioni di male politico e sociale.
Nella Orano di Camus, passata la peste, gli abitanti festeggiano la riapertura della città e tornano spensierati alle occupazioni di un tempo: «tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati. Gli uomini erano sempre gli stessi. Ma era la loro forza e la loro innocenza». E gli intellettuali? Possono distinguersi dal gruppo, sapendo «ciò che ignorava la folla e si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai», oppure possono unirsi alle celebrazioni per la libertà ritrovata. Possono comportarsi come nella vignetta di Altan citata da Polito, e al dubbio sul «chissà come finirà», insinuare: «Finirà?!». O più ottimisticamente – come lo stesso Altan disegnò un anno (e un lockdown) prima – all’affermazione «ce la faremo», rilanciare: «E se no, ce la faremo».
Quale sia, al di là delle inclinazioni caratteriali di ciascuno, l’atteggiamento più proficuo nell’agone democratico, quello anche più promettente, per esempio per un insegnante, sotto il profilo educativo, è un quesito spigoloso che ha di nuovo a che vedere con la funzione della cultura: ci si emancipa, e soprattutto si favorisce l’emancipazione altrui, meglio con la critica o con il dialogo, contrapponendosi o tentando di comprendere? È un dilemma antico, vecchio quanto la cultura stessa, e la pandemia ci aggiunge poco o nulla. Però la pandemia lo rende più attuale e più urgente.