Come vivere nella pandemia? L’immaginazione ci consente di sopravvivere a qualsiasi crisi collettiva senza perdere il gusto della complessità, travalicando le circostanze conosciute e ristabilendo con forza, nel caso di un ripiegamento sfinito su noi stessi, l’esistenza dell’alterità. Ognuno vive la propria storia, ognuno vive (anche) la propria pandemia; la malattia non è uguale per tutti, così come non lo sono gli spazi abitativi, le possibilità economiche, i contesti famigliari, le capacità di comprensione, i margini di tolleranza. È importante ricordarlo, ribadirlo: la semplificazione della narrazione, durante questo primo anno di pandemia, è stata costantemente in agguato, quando invece dovevamo compiere lo sforzo di immaginare, di provare a capire. Cosa c’era dietro a una quarantena violata, a un’azienda che apriva e lavorava di nascosto, all’anziano che usciva tre volte alla settimana per fare la spesa e tornava con i sacchetti semivuoti? C’erano cittadini malati di onnipotenza, allergici alle regole, italianamente furbetti ed egoisticamente irresponsabili? Oppure c’era una figlia preoccupata per la madre malata di Covid a casa da sola, c’era un imprenditore strozzato dai debiti, c’era un uomo con la pensione minima in grado di pagare solo poca spesa alla volta? Maurizio Maggiani si è domandato (4 aprile 2020): “Mi sto assoggettando a questo duro regime di restrizioni e costrizioni perché aderisco con convinzione a un patto di fiducia con chi me le impone, perché condivido la veridicità delle informazioni che le hanno dettate, perché riconosco il governo del mio paese come contraente sincero e positivo del patto? Generosamente gli addetti al conforto si ingegnano a titillarci con musiche adatte, programmi televisivi riadattati, benigni consigli di vita, allegre storielle. Come se fosse ovvio che non abbiamo la forza e la voglia di inventarci niente per tirare avanti, come se non ci infilassero il termometro in bocca non sapremmo dove metterlo. Le stesse ordinanze o ci vengono urlate dai megafoni per strada o sussurrate suadenti dai divi, come si fa con i bambini prima e dopo aver perso la pazienza. È così che siamo?”. Oggi gli risponderei: no, possiamo essere meglio di così. Possiamo continuare nell’esercizio dell’immaginazione, allenare il muscolo dell’empatia, raccontare la complessità. Le parole hanno un potere alchemico, fanno esistere le cose anche quando non ci sono, e al contrario, se non nominiamo una cosa, quella, nel nostro tessuto sociale e psichico e storico, non esisterà mai.