Guerra e riarmo: il rischio di una logica senza logica

Marco Labbate


«Da tutte le parti ci si arma. Fino al punto in cui una delle parti dirà: meglio una fine con orrore che un orrore senza fine». Sono parole di August Bebel, fondatore della Spd. Guardavano al clima che imperversava in Europa nel primo decennio del Novecento. Bebel sarebbe morto nel 1913. Nel 1914, al momento dell’ingresso nel conflitto, il suo partito avrebbe votato i crediti di guerra. Da quando il conflitto dell’Ucraina è cominciato, queste parole mi sembrano essere tornate di inquietante attualità. Nei bilanci degli Stati l’investimento militare è salito in cima agli incrementi di spesa. Seguendo l’esempio di Cina e Germania, anche la Camera dei deputati ha approvato a tempi di record un incremento della Difesa di 13 miliardi A farne le spese sono l’istruzione, per la quale la bozza del Def prevede una riduzione dal 4% al 3,5% del Pil e la Sanità, per la quale il calo è dello 0,6% all’anno per il prossimo triennio. Insomma la pandemia ha insegnato molto, ma non a un Paese afflitto da croniche amnesie: si torna ai consueti tagli che sono stati la base dell’impreparazione con cui abbiamo affrontato una pandemia che non si prospetta essere l’ultima. Intanto la Commissione Finanze del Senato ha proposto di abolire l’Iva sulla vendita delle armi, mentre rimane su alimentari, energia e beni di prima necessità, per i quali i prezzi sono in costante aumento, e mentre all’orizzonte si profilano altre emergenze, a partire da quella idrica, avanguardia di quella climatica.

La reazione a catena delle economie più forti, che ora guardano al riarmo come necessario alla propria sicurezza, era prevedibile. La deterrenza richiede questo, ci siamo già passati: essere tanto bene armati da scoraggiare invasioni, stare sull’orlo della guerra nucleare nella speranza di non passarlo. Si tratta di una politica costosa che peggiorerà la vita di tutti. Ma in confronto ai tempi della guerra fredda alcune cose sono cambiate: si è affievolito il senso di orrore verso la guerra e manca nella popolazione quel senso di coesione che viene dalla mitigazione delle diseguaglianze. Di fronte a una situazione economica insostenibile l’ordine interno può essere funestato da proteste veementi di fronte alle quali uno Stato senza leve economiche potrebbe opporre solo la repressione.

Sia chiaro. Di fronte al conflitto attuale rifiuto qualsiasi logica dell’equidistanza. Frasi come «Né con la Nato né con Putin» mi ricordano slogan nefasti e imbelli. Qui c’è un aggressore e un aggredito. C’è un criminale e un popolo vittima. Non vi è dubbio sulla parte dalla quale stare. E questo a prescindere di tutte le nefandezze che la Nato ha compiuto dall’Iraq in avanti (o all’indietro) o da quanto possano essere legittimi alcuni timori della Russia sul suo allargamento a est. Per capire il conflitto non si può prescindere dalla visione della storia e dalla politica di potenza che presiede il progetto espansionista di Putin e una spietatezza che non si fa problema alcuno di rinnovare gli orrori compiuti in Cecenia o in Siria. Chi guarda Bucha ha negli occhi Novye Alde. Più che il futuribile ingresso dell’Ucraina nella Nato, la guerra di Putin guarda a un’idea mitica di impero, alla destabilizzazione dell’Europa, ai timori di contagio della democrazia.

Credo però che sia necessario riflettere sul modo con cui contrastare Putin. Ovvero se l’invio di armi per sostenere la risposta armata dell’Ucraina sia l’unica strategia da perseguire. Il fatto che il tavolo negoziale non sia mai stata un’opzione seriamente presa in considerazione, le tensioni crescenti tra Nato e Cina, non lasciano molti spazi. Dopo il congelamento dei tentativi di Israele e della Turchia di Erdogan (non privi di secondi fini, in particolare il secondo), l’unico attore rimasto sulla scena a perseguire coerentemente una via diplomatica alla crisi, sembra essere il papa. L’Europa non sembra al momento in grado di fare altro che schiacciarsi sulla volontà degli Stati Uniti. E d’altronde una politica estera comune non si può improvvisare.

L’idea di trattare con un dittatore che reprime duramente il dissenso e premia gli autori di crimini di guerra contro i civili non è certo una prospettiva allettante. Tuttavia non va dimenticato che con quel regime l’Occidente si è tuttavia a lungo intrallazzato, mantenendo una preoccupante sudditanza energetica. Adesso, ogni ora perduta nell’imbastire un negoziato accresce il carico di dolore di uomini, donne e bambini e riduce le possibilità che la situazione non evolva in una guerra endemica, che sfianchi Putin e il suo potere. Ora questa prospettiva, forse funzionale da un punto di vista geopolitico di logica di potenza, mi sembra abbia un portato insostenibile per le democrazie europee: un flusso insostenibile di profughi, una perdurante guerra energetica alla quale non sembrano rispondere piani radicali sul rafforzamento del comparto rinnovabile, il rischio di una crisi alimentare dovuta alle minori esportazioni dell’Ucraina che potrebbe colpire ulteriormente il sud del Mondo con la nascita di nuovi focolai di crisi. Tutto questo in una situazione di collasso climatico, ormai derubricato al fondo della scala delle emergenze, e una, imminente, crisi idrica. Questo, rimanendo nei calcoli delle nostre egoistiche postazioni e immaginando che il conflitto non si allarghi e non si spalanchi il baratro della guerra nucleare. Se poi, in modo meno autoreferenziale, guardassimo all’Ucraina, gli effetti di una guerra endemica dovrebbero toglierci il sonno: quale numero di bambini, uomini e donne morti, feriti, mutilati è considerato accettabile per questa strategia? Cosa resta nella vita di chi sperimenta la guerra, cosa resta in una popolazione assuefatta a subire e dare la morte? A queste domande, la geopolitica risponde spesso con un’alzata di spalle.

Il dubbio non è di facile soluzione. Abbiamo comunque di fronte a noi un popolo che sta rispondendo con coraggio e con un sacrificio umano enorme a un’aggressione immane. Cessare ora di fornire le armi avrebbe come conseguenza la sottomissione a un regime di occupazione e a dolori, vendette, rappresaglie. E potrebbe sembrare un ragionamento ancor più irrispettoso e in fondo, chiedersi ancora se la risposta armata a un’invasione fosse l’unica possibile. Credo tuttavia che l’idea di «difesa popolare nonviolenta» meriterebbe una trattazione seria, anziché un sorriso. Fermo restando che di fronte a un’ingiustizia, se non si danno armi, si deve offrire qualcosa di più efficace, mi chiedo perché la nonviolenza venga sempre relegata all’empireo delle buone intenzioni, mentre le sostenibilità di una reazione violenza non subisca un vaglio altrettanto severo, come se il reagire con le armi, sia necessariamente una soluzione logica ed efficace. Erica Chenoweth e Maria J. Stephan, in un lavoro del 2011, Why civil resistance works. The strategic logic of nonviolent conflict, avevano rilevato che il 59% delle lotte nonviolente antiregime avevano avuto successo contro il 27% delle lotte violente. Rispetto ad atti di occupazione di potenze straniere la percentuale scendeva al 41%, ma anche quella del successo delle risposte violente calava al 10%.

Una volta scoppiata la guerra, la nonviolenza può sempre meno. Ma ammesso che non via sia più alcuna alternativa all’invio di armi, questo dovrebbe anch’essa essere iscritta in una visione che consideri il «sangue risparmiato» tra le categorie meritevoli di considerazioni. Se l’obiettivo del riarmo ha come unico orizzonte il prolungamento sine die della guerra, se non ha una prospettiva negoziale, l’esito sicuro è un fallimento. Inoltre non si dovrebbe prescindere da uno sguardo sul dopo, perché quando si arrivi a una pace, l’Ucraina non si trovi in balia di bande armate, difficili da ricondurre a uno stato democratico. Dalle Farc colombiane ai mujaheddin afghani gli insegnamenti non mancano.

Mi chiedo tuttavia cosa accadrebbe se Biden, la Nato e la Cina si accordassero per aprire un tavolo della pace a Ginevra e affrontare tutte le questioni in ballo in cambio di un cessate il fuoco. O se l’Onu inviasse sul fronte una cospicua presenza di caschi blu per fare interposizione. O se tutti i sindacati d’Europa proclamassero congiuntamente il primo sciopero europeo contro la guerra per domandare il cessate il fuoco e al proprio governo uno sforzo diplomatico per raggiungere la pace, invitando anche i russi a partecipare. Forse sono proposte utopiche, ma credo anche utopico che trattare la guerra con leggerezza e non come la più grande sventura che possa capitare all’umanità non lasci segni nefasti. Giorno dopo giorno il rischio che si smetta di credere nel valore della pace cresce. O che d’altro canto venga sempre più confusa la pace con la resa.

Centro studi Piero Gobetti

Via Antonio Fabro, 6
10122 Torino
c.f 80085610014
 
Tel. +39 011 531429
Mail. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.
Pec. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Iscriviti alla Newsletter

Inserisci la tua mail e sarai sempre
aggiornato sulle nostre attività!