La prospettiva del cessate il fuoco sta svanendo e la reiterata evocazione del rischio nucleare lo normalizza come scenario possibile. Le atrocità commesse contro i civili e la degradazione a mero criminale del nemico (basti pensare al linguaggio usato da Biden) restringono gli spiragli per una soluzione diplomatica della guerra, con il connesso costo in vite umane e distruzione che il prolungamento della guerra comporta e il pericolo di un allargamento del conflitto.
L’empatia e il dolore che ciascuno sente per le vittime vengono tramutate in una pornografia della sofferenza che alimenta la dicotomia amico/nemico e la militarizzazione del discorso pubblico, esacerbando la guerra con i suoi orrori, gli orrori di ogni guerra.
La retorica della guerra giusta cancella la prospettiva della pace e delegittima lo sforzo teso a perseguirla, prefigurando il baratro di un conflitto di anni, nel contesto di un mondo attraversato da guerre per procura tra imperialismi e con il disastro ambientale che incombe.
Tra le poche voci contro il clima belligerante, vi è quella del movimento per la pace, invero al momento debole, frammentato, emarginato e osteggiato. Il contesto è molto diverso dal 2003 quando le proteste contro la seconda guerra in Iraq – ma si pensi anche al peso del movimento contro la guerra in Vietnam – sulla scia del movimento “no global”, dell’esperienza dei Forum Sociali Mondiali (Seattle, Porto Alegre e Genova, per ricordare i più noti), avevano portato in piazza centodieci milioni di persone in tutto il mondo, tanto che il New York Times scrisse del movimento pacifista come “seconda potenza mondiale”.
Bobbio, nel 1995, scriveva: «mentre infuria la guerra nella ex Jugoslavia, dei movimenti pacifisti, che pure non sono inetti, si parla poco, sempre meno»: ora le mobilitazioni per la pace non solo sono ignorate ma colpevolizzate, accusate, in un contesto politico militarizzato, di “filo-putinismo”, di prendere le parti dell’aggressore, di disfattismo.
Il clima di guerra, con la sua semplificazione, travolge dissenso e pluralismo, ovvero quel conflitto che della democrazia costituisce l’essenza. La guerra, come l’emergenza della sindemia e prima ancora la c.d. “emergenza migranti”, per non citare la legislazione antiterrorismo, chiude spazi politici.
Si innesca un percorso a senso unico che si autoalimenta e che, occultato dietro un retorico richiamo ai valori, prospetta anni di conflitti endemici attraverso i quali gli imperialismi si riassestano e il capitale si ristruttura, cieco alle diseguaglianze crescenti e alla catastrofe ambientale, sempre che non deflagri tout court il terzo conflitto mondiale o si inneschi un conflitto nucleare che annienta l’umanità.
La democrazia è compagna della pace, non della guerra, è una forma di Stato che si fonda sull’espressione pacifica dei conflitti, è il terreno nel quale i diritti vengono garantiti e si perseguono emancipazione e giustizia sociale; la guerra si accompagna alla sopraffazione, a violazioni dei diritti, alla diseguaglianza e al dominio.
La nostra Costituzione, nel costruire una democrazia, armonicamente, sancisce il principio pacifista, rinnegando e rifiutando il fascismo con la sua violenza, la sua guerra di aggressione, la sopraffazione, la violazione dei diritti.
L’articolo 11 «ripudia» con forza la guerra (il termine ripudia fu scelto dai costituenti rispetto a “condanna” e “rinunzia” perché più “energico”), ammettendo unicamente la guerra di legittima difesa (in coerenza con lo Statuto delle Nazioni Unite che, nell’intento di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», prevede, all’art. 51, il solo diritto di autotutela e precisa «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale»).
Legittima difesa è quella del popolo ucraino, non lo è inviare armi fomentando una guerra per interposta persona. Non si tratta di «difesa della Patria» (art. 52 Cost) e non è pertinente il riferimento all’art. 78 Cost. (che disciplina la deliberazione dello stato di guerra, ma, ça va sans dire, nel rispetto dei parametri dell’art. 11 Cost., ovvero nel solo caso della guerra di legittima difesa); né si può ragionare di ottemperanza a obblighi internazionali, che non possono derogare al ripudio della guerra: l’adesione alla Nato – al di là del fatto che l’Ucraina in ogni caso non è né membro dell’Unione europea né parte della Nato – è legittima, sulla base di un trattato internazionale (non dell’art. 11 Cost.), fintantoché la Nato è un’alleanza difensiva, solo difensiva.
I principi guida nelle relazioni internazionali sono la pace e la giustizia fra le Nazioni, gli obiettivi che attraversano trasversalmente le tre proposizioni dell’art. 11 Cost. e fondano la partecipazione dell’Italia alle Nazioni Unite. La via, dunque, è agire con determinazione per una soluzione pacifica, per una conferenza internazionale di pace, che metta fine al più presto alle sofferenze degli ucraini.
Tuttavia la pace, e l’art. 11 Cost., non si trovano nei decreti legge sulla guerra in Ucraina, nella risoluzione approvata dal Parlamento, negli interventi del Presidente del Consiglio.
La pace e l’art. 11 Cost. si incontrano nei presidi, nelle assemblee, nei documenti, del movimento per la pace, un movimento invero – come anticipato – diviso e denigrato. Scriveva ancora Bobbio nel 1995: «se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una manifestazione della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire sulla faccia della Terra»: utopia? Forse, ma è nelle forze sociali e politiche dal basso che si trovano i germogli per una alternativa ad un mondo sempre più diseguale e violento.
Al momento è “dal basso” che nascono proposte e azioni per la pace: certo sono piccoli passi, ma è da essi, dalla loro unione con le lotte per il lavoro, con le proteste per l’ambiente (sul modello della dichiarazione congiunta del Collettivo di fabbrica della Gkn e di Fridays For Future Italia), che occorre ripartire.
Agire per la pace non significa equidistanza, ma stare “dalla parte degli oppressi”, tutti, il popolo ucraino in primo luogo, ma anche coloro che sono vittime in Russia di un regime autoritario che reprime il dissenso, e tutti i profughi dai tanti conflitti che insanguinano il mondo e dai luoghi dove i diritti non sono garantiti (come prevede l’art. 10, c. 3, Cost.). Agire per la pace, nell’orizzonte dell’art. 11 della Costituzione, è perseguire con ogni forza la via diplomatica, rafforzare, e riformare, una comunità internazionale che assuma come obiettivo pace e giustizia, chiedere una conferenza internazionale per la pace in Ucraina (e non solo…), opporsi al riarmo.
Agire per la pace è esercitare spirito critico, comprendere oltre la cappa dell’informazione embedded, mantenere vivo il pluralismo della democrazia e mobilitarsi nella consapevolezza del legame fra pace, diritti ed emancipazione, in contrapposizione a guerra, diseguaglianze e dominio.
La sensazione di impotenza è forte; è facile non vedere, anche volgendo lo sguardo al futuro, che «una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine» (Benjamin), ma è necessario reagire, provare a fermare la corsa verso il baratro, scardinare una narrazione omologante, recuperando il pensiero complesso e il discorso critico, la possibilità di guardare oltre e di costruire una comunità internazionale tesa alla pace e alla giustizia, insorgendo contro uno stato di natura globale hobbesiano, che, nella migliore delle ipotesi, si traduce in guerre endemiche e diseguaglianze strutturali, e, nella peggiore, invera «il rischio della morte universale» (Manifesto Russel-Einstein, 9 luglio 1955).