Bobbio ci ha insegnato a non usare le parole del vocabolario politico in modo generico e senza specificazioni. A ogni vocabolo metteva un “quale” e un punto interrogativo.
Basta guerra, vogliamo la pace! Perfetto, siamo tutti d’accordo. Ma se poi ci chiediamo: quale pace? non siamo più tutti d’accordo.
1) E’ una pace che implica la rinuncia degli ucraini all’autodeterminazione e alle istituzioni che essi si sono liberamente dati? Chiediamo che rinuncino alla loro libertà? In questo caso la pace significa arrendersi alle pretese russe per cui l’Ucraina è solo un’espressione geografica e può aspirare al massimo a una molto relativa autonomia entro la “grande patria” russa. Siccome gli ucraini vogliono invece essere una nazione realmente indipendente, oltre che essere indegno per l’Europa abbandonarli al loro destino “geopolitico”, sarebbe una pace tanto fragile quanto quella che fece affermare nell’Ottocento “L’ordine regna a Varsavia”. O quella che fece affermare nel Novecento che non valeva la pena “morire per Danzica”.
2) E’ una pace che implica la rinuncia degli ucraini a una vasta porzione del loro territorio? Pace fragilissima anche sotto questo aspetto. Si darebbe il segnale che dovunque ci siano minoranze russofone che abitano un territorio limitrofo, la Russia può accampare pretese territoriali senza correre gravi rischi. Sarebbe una pace che facilita altre guerre.
Invocare la pace senza definire a quali condizioni può essere a) giusta (il diritto all’autodeterminazione), e b) durevole (cioè avere buone probabilità di durare) non è un buon servizio alla causa della pace.
Se la Russia si sente minacciata, è legittimo che non voglia la Nato ai confini, è legittimo che non vi voglia testate nucleari. Ma la Nato ha già respinto l’adesione richiesta dall’Ucraina e questa ha già da anni smantellato il suo armamento atomico. Non è bastato. La Russia vuole altro, molto di più. I toni da crociata religiosa di Putin e Kirill contro l’Occidente corrotto e decadente dovrebbero aprire gli occhi e non permettere illusioni circa il carattere neo-imperiale della politica russa.
A questo punto è da porsi la domanda: vogliamo metterci sul terreno rovinoso dello “scontro di civiltà”? No, certamente. Distinguiamo bene le popolazioni e la cultura russe dal governo e non diamo nessun credito a sondaggi russi in cui difficilmente un cittadino dissidente si azzarda a dire quello che pensa. C’è in Russia una brutale repressione di qualsiasi opposizione e una martellante propaganda di guerra che non permette il lavoro di giornalisti indipendenti. Non dimentichiamo Anna Politkovskaja e tutti gli altri oppositori liquidati. Ma la stessa brutalità della repressione dimostra che il governo teme le aspirazioni alla libertà di una parte dei governati.
Una parola per i pacifisti integrali. Dire agli ucraini che avrebbero dovuto e dovrebbero rispondere con la nonviolenza ai bombardamenti, deporre le armi e poi praticare la non collaborazione con gli occupanti, mi sembra che non tenga conto di questo: i russi si sarebbero installati a Kiev, avrebbero messo in piedi un governo fantoccio e “epurato” il paese dagli elementi ostili. A questo punto la non collaborazione avrebbe richiesto di essere eroicamente disposti a farsi licenziare e a rischiare la galera se non peggio. Quanti sarebbero stati disposti?
La guerra, si dice, genera nuove guerre, ma le genera anche la pace come resa ai prepotenti di turno.
E poi con che diritto fare la predica a chi rischia tutti i giorni la vita?
Ritengo che sia conforme a un’etica della responsabilità fare tutto ciò che possa costringere la Russia a desistere dall’aggressione evitando i passi che rischino una terza guerra mondiale (es. “no fly zone). Questo è il terreno difficile e impervio della politica, di una politica che cerchi la pace e metta in atto tutte le iniziative diplomatiche che possono conseguirla, ma non a qualsiasi prezzo. Non sulla testa degli aggrediti.