Partigiani a confronto I: la lezione di Duccio Galimberti
di Alberto Cavaglion


Ricordavo il turbamento di mio padre, quando sul finire degli anni Sessanta venne alla luce una pellicola girata nel 1943 con una macchinetta Pathé. Penso sia stata sviluppata in qualche buio angolo di cascina o di canonica. Era molto tempo che non guardavo quelle immagini. Si tratta di un breve filmato opera di un sacerdote partigiano, don Giuseppe Pollarolo [1].
Siamo a metà del settembre 1943, a Madonna del Colletto, sopra Valdieri, dove si è appena insediata la banda Italia Libera guidata da Duccio Galimberti: per tre secondi si vede mio padre quando aveva l’età dei miei figli oggi.

 

In quel filmato (meno di due minuti) Duccio Galimberti illustra la ragione del loro essere lì e si attarda a spiegare come funziona una mitragliatrice.
Sono gli undici giovani della formazione Italia Libera, la prima banda partigiana nata il 12 settembre 1943. Galimberti era un avvocato. Portava lo stesso nome di suo padre, Tancredi, l’eroe dalla Gerusalemme liberata. Senatore del regno, conservatore illuminato il padre di Duccio, una fine letterata d’origine austriaca la madre, Alice Schanzer, donna affascinante a giudicare dai ritratti, con qualche remota radice ebraica, era una convinta mazziniana, vicina ai giovani democratici e socialisti, sensibile a ogni movimento novatore, anche nel campo dell’arte.
Mio padre, dopo il 1938, abbandonato da coetanei che pure sarebbero diventati valorosi partigiani, aveva trovato asilo nello studio di Tancredi jr., una specie di zona franca dove si radunava una dozzina di antifascisti.
Non ho dormito bene dopo aver rivisto quel filmato. La mattina accendo il computer in fretta, con le mani bagnate. L’impressione che hanno suscitato quei fotogrammi si ripercuote nei gesti della più banale quotidianità: il cursore sotto la mia mano vaga sullo schermo senza centrare il bersaglio, s’affaccia un ricordo d’infanzia, il ricordo di un’arma che io stesso ho impugnato.
In quinta elementare il maestro aveva voluto che sedesse accanto a me un nuovo scolaro, figlio di una giostraia. Nella mia città ogni anno, a Carnevale arrivavano «i viaggiatori della luna». La piazza che dopo la Liberazione porta il nome di quell’uomo robusto, con la barba lunga che addestra un manipolo di giovani all’uso di una mitragliatrice era invasa dalla allegra brigata dei girovaghi.
Nei primi anni Sessanta, i figli dei giostrai venivano inseriti nelle classi delle scuole pubbliche. Si fermavano un paio di mesi al massimo. Mi sembra di ricordare che ciò avvenisse con naturalezza, senza che nessuno strepitasse. Non ricordo come si chiamasse il mio compagno di banco, credo fosse lucano. Lo aiutavo a fare i compiti, poi mi accompagnava nella passeggiata che facevo ogni sera per andare a prendere mio padre nel fondaco di stoffe  all’altro capo della città, in fondo alla città vecchia. Per arrivarci bisognava passare sotto il balcone dove Duccio Galimberti pronunciò lo storico discorso del 25 luglio - la guerra non è finita si deve combattere contro tedeschi e fascisti -, ma noi non ci badavamo: ci fermavamo a salutare la mamma del mio amichetto, che da sola gestiva un tirasegno e accudiva tre figli, uno più vivace dell’altro. Con dolcezza materna dava a tutti pane e marmellata e a me metteva in mano un mitra pesante. Ti appoggiavi al banco: un raggio rosso, progenitore del cursore, puntava a un bersaglio. Non uno schermo dove imprimere parole, ma un vetro al di là del quale un orso bruno vagante per un bosco si rizzava su due zampe se lo colpivi e lo immobilizzavi, centrando una finestrina tipo oblò che aveva sulla pancia. Più a lungo lo tenevi sotto tiro, premendo a ripetizione il grilletto, più fascinoso era il premio che portavi a casa. Non era facile come sembra, però godevo di una rendita di posizione. Potevo sparare a volontà, un premio lo ritiravo comunque. La bellezza della giovane mamma, una donna dal viso dolcissimo, lo so, addolcisce oggi il buco nero di ricordi poco dolci. Senza che me ne rendessi conto, agiva in me lo spirito di emulazione generato dai racconti che mio padre faceva tutte le volte che passavamo sotto quello storico balcone. Tanto bastava a distrarmi e a perdere di vista il bersaglio: la mia mano non riusciva a stare ferma, esattamente come quella mattina in cui appena sveglio il cursore faceva un balletto sullo schermo.
Secondo Georges Perec la memoria parte sempre da un’immagine folgorante, alla quale vengono ad associarsi tutta una serie di legami famigliari, temi ricorrenti, osservazioni precise. Parla di “autobiografie notturne”, dice di essere uno “squartatore dei ricordi”. Per questo forse anche i miei ricordi affidati a queste pagine sono ricordi squartati come le rane di Vercelli o l’orso che si lamenta sconsolato o l’eco lontana delle parole di Galimberti che esorta a resistere sempre. Per la sua autobiografia notturna Perec aveva escogitato un meraviglioso titolo: La boutique obscure.
 
Note:
[1]. Mio padre è il quarto partigiano da destra; il breve video è accessibile in rete: https://www.youtube.com/watch?v=7Ch32sA_iAM.  Il sesto partigiano ripreso in questo fotogramma è Dino Giacosa, cui vorrei dedicare queste mie righe. Su questo video con altri ricordi autobiografici ho scritto adesso una breve memoria, Il fondaco oscuro dei ricordi, raccolta nel volume La misura dell’inatteso. Ebraismo e cultura italiana (1815-1988), Roma, Viella, 2022, pp. 11 ss.

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