In seguito alla lettura di Un’altra Italia di Pietro Polito (Ares edizioni, Fano 2021) questo intervento vuole rintracciare un percorso che avvicini la figura di Piero Gobetti – e la sua formazione – al marxismo, ponendosi poi in dialettica con alcuni dei punti programmatici e quindi emancipandosene. In preambolo, Un'altra Italia offre al lettore un’autentica esperienza di pensiero che consente di esplorare, sotto la sapiente guida dell’autore, un’antologia dei principali pensatori e pensatrici del Novecento. Pietro Polito scrive pagine di ammirabile lucidità, coniugando suggestioni e stimoli autobiografici con il rigore di una materia così complessa come la storia del pensiero politico del Novecento.
La traiettoria, che ho cercato di tracciare nella lettura, vuole appunto individuare coerentemente le ascendenze del pensiero di Marx all’interno della genesi della Rivoluzione liberale di Gobetti. L’interesse gobettiano per il marxismo risale già al 1919 quando, giovanissimo e alla prima esperienza editoriale con «Energie Nuove», segue il dibattito italiano sulla Rivoluzione d’Ottobre e dedica un fascicolo della rivista al marxismo, con interventi di Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Giovanni Gentile. Negli anni di «Energie Nove», vicino al concretismo di Gaetano Salvemini da cui poi si allontanerà non individuandone la pars costruens del progetto politico, il precoce intellettuale torinese osserva la nascita e il consolidamento dei partiti di massa e intuisce che il movimento operaio sia sorgente di istanze nuove e possa diventare motore della Storia. Ulteriore punto di contatto -e aggiornamento- con il pensiero marxista sarà poi esplicitato nell’articolo L’ora di Marx comparso il 15 aprile del 1924 su «Rivoluzione Liberale», rivista fondata nel 1922 dopo aver superato – anche nello sviluppo del proprio pensiero – l’esperienza di «Energie Nove» (chiusa nel 1920). Gobetti, malgrado reputi il liberismo come condizione non sufficiente seppur necessaria, prende nette distanze dal Marx economista e teorico del plusvalore, al contrario di Antonio Gramsci, mentre apprezza apertamente il Karl Marx storico e filosofo. Infatti, per Gobetti, Marx aveva brillantemente aggiornato la lezione hegeliana sull’idealismo, assunta da una certa sinistra, con il riuscito concetto di Materialismo storico: l’avanzamento della Storia è materialistico e l’uomo si muove totalmente assoggettato a rapporti di forza e di produzione annessi che, per nulla, riflettono la sua volontà ma solo una determinata fase di sviluppo storico. Tuttavia, è attorno al tema del conflitto – inteso, chiaramente, in termini di dialettica non violenta – che si rintraccia la vicinanza a Marx e, allo stesso tempo, se ne misura l’allontanamento. Per Gobetti, Marx individua opportunamente nella lotta della classe operaia un potenziale indispensabile per il rinnovamento dell’Italia ma sbaglia nell’approdo ultimo ossia nel collettivismo. In altre parole, esiste un «marxismo buono» nel «metodo» con cui si intende attivare la classe operaia e un «marxismo cattivo» nel «sistema», nel disegno ultimo in cui, passando attraverso la dittatura del proletariato, si tende ad una società senza classi, svuotata di conflitto e con più che limitata iniziativa personale. D’altronde, Gobetti si è progressivamente convinto che il male di fondo della realtà italiana risiedesse nell’esclusione delle classi lavoratrici dalla vita politica e istituzionale del paese, cioè nell’incapacità da parte delle classi dirigenti di guidare i processi di modernizzazione della società, legati in primo luogo al coinvolgimento attivo delle masse nella sfera pubblica. In questa visione, il ruolo delle classi è indispensabile così come quello del conflitto – da esercitare in ogni ambito politico, sociale, economico e culturale – per rendere vitale l’intera società. Anzi, il mondo moderno si è sviluppato storicamente proprio a partire dal conflitto, passando dalla formazione incessante di nuove élite a cui toccherebbe la guida della società. E il ruolo del movimento operaio, in questo senso, risulta assolutamente decisivo, proprio perché esso rappresentava il desiderio di emancipazione delle classi lavoratrici. Il progetto gobettiano di “rivoluzione liberale” non è abbandonare i principi liberali classici, semmai proporne una riforma, una revisione e un rilancio, senza alcun timore di apparire per questo controcorrente. Quella di Gobetti è, in ultima analisi, una proposta di aggiornamento della teoria e della prassi liberali, che egli ha tentato di avviare con un’iniziativa, rivolta non solo al tradizionale mondo liberale, ma agli elementi più giovani e indipendenti di tutti i partiti, compresi appunto quelli proletari.
Nel tentativo di attualizzare e allargare l’inquadratura sul contemporaneo, come negli intenti di questo dialogo a più voci, due sembrano le direttive o, quantomeno, gli spunti di riflessione plausibili. Da un lato, la riflessione sui partiti di massa, la cui vitalità appare oggi pressoché svuotata nell’essenza. La riuscita di un progetto politico simile sembra dover passare dalla preparazione di un humus culturale adatto piuttosto che impostato dall’alto. Sempre sulla scorta della lezione di Gobetti, non appare forse oggi il conflitto politico neutralizzato, se non proprio disincentivato?