Aldo Capitini rientra perfettamente nel novero degli illustri personaggi contenuti nell’ultimo lavoro di Pietro Polito, Un’altra Italia. Il libro è percorso dal filo rosso dell’impegno politico non dimentico dell’ispirazione morale che costantemente lo deve guidare. La fedeltà ai propri principi è stata un prezzo molto alto da pagare per molti di questa schiera di intellettuali, alcuni dei quali, come il faro Piero Gobetti, hanno perso la vita in nome della libertà.
Dei tanti episodi esemplificativi della vita di Capitini, uno è quello che mi preme citare, in quanto rappresenta la scelta che dà l’indirizzo alla sua riflessione filosofica, politica, religiosa. All’inizio degli anni Trenta il filosofo perugino è segretario della Normale di Pisa, il cui direttore è Giovanni Gentile. Obbligato ad iscriversi al Pnf, pur di non scendere a patti col fascismo, Capitini si dimette. In una lettera allo stesso Gentile emerge con chiarezza il concetto portante del pensiero di Capitini, che lo distingue dalla maggior parte dei pensatori liberali del Novecento: la non accettazione della violenza come mezzo di affermazione delle proprie idee, poiché essa, se abbracciata, rivela una lacuna spirituale profonda della persona.
Capitini condivide comunque con Piero Gobetti ed altri pensatori citati nel libro di Polito diverse idee: l’esigenza della libertà come base imprescindibile di ogni politica, l’impegno per la rigenerazione delle coscienze nel senso della responsabilità individuale e il rinnovamento sociale e politico che abbia nel controllo dal basso, delle masse popolari, la sua risorsa principale.
Capitini, tuttavia, è un personaggio di un’intensa religiosità: proprio l’incontro tra religione e politica, una sintesi coerente tra la storia del pensiero politico moderno e l’ispirazione che proviene dalla spiritualità è l’elemento che rende Capitini unico nel panorama del pensiero liberale del Novecento. Da questa base prende piede la scelta del rifiuto della violenza. Influenzato dal pensiero gandhiano, Capitini abbraccia la nonviolenza come metodo politico, filosofico, non solo a livello sociale ma prima di tutto individuale. L’accento, nella politica capitiniana, non sta principalmente nell’efficacia dell’azione, ma nei mezzi che si utilizzano. Le due colonne portanti di tale azione solo la nonviolenza e la verità, intesa come rifiuto della menzogna, le quali sono veri e propri atti religiosi. Essi valgono in senso assoluto, non perché efficaci, ma per un amore che è superiore ad ogni considerazione di utilità [1]. La svolta è acquisire come fini quelli che erano prima mezzi, che hanno già in sé stessi il proprio valore: la nonviolenza, l’apertura, l’ascolto, il dialogo, già nel momento stesso del loro esercizio raggiungono il loro scopo.
Questo approccio è frutto di una riflessione lunga più di trent’anni, ma che si può intravedere già alla fine degli anni Trenta, quando Capitini fonda, insieme al filosofo Guido Calogero, il movimento antifascista del liberalsocialismo. Esso confluirà nel Partito d’Azione, formazione a cui Capitini non aderirà, poiché il liberalsocialismo non sarebbe dovuto essere un partito tra i tanti, ma avrebbe dovuto conservare la sua natura di movimento e il suo essere, per usare le parole di Capitini, ‹‹un atteggiamento dell’animo››, un faro costante, una speranza che illumina ed ispira l’azione politica. Questo perché le posizioni che si ritrovano all’interno del movimento fondato da Capitini non sono ascrivibili solo alla politica, ma sono in un certo senso religiose, le quali non possono trovare una traduzione meramente politica. Qui si ritrova il prendere atto, da parte di Capitini, dei limiti e dei rischi insiti nel sistema democratico, costantemente viziato dagli interessi particolari, dall’elitarismo della politica, scollandosi in tal modo dalle fasce popolari. Il funzionamento dei suoi organi principali, il parlamento ed il partito, mira al raggiungimento ed all’esercizio del potere per il potere, risultando mezzi inadatti al controllo dal basso e al rinnovamento delle coscienze.
Sulla scia di questi giudizi, Capitini conia un neologismo: omnicrazia, il potere di tutti, inveramento della democrazia. Rispetto a quest’ultima, l’omnicrazia è un miglioramento grazie ad alcune aggiunte, per usare un termine capitiniano. Ad esempio, se l’istituto fondamentale della democrazia è il parlamento, l’istituto fondamentale dell’omnicrazia è l’assemblea, la quale realizza il controllo dal basso, integrando, se non sostituendo, il mezzo del partito. Prima della stagione degli anni Sessanta e Settanta, con i suoi numerosi tentativi di esercizio di potere politico dal basso, Capitini crea i Centri di Orientamento Religioso ed i Centri di Orientamento Sociale, assemblee aperte a tutti i cittadini. Dai contadini e gli operai agli impiegati, ognuno può dare il proprio contributo. Si discute dei temi più disparati, dai concetti più complessi ai problemi di tutti i giorni, al fine di ricreare ed assomigliare il più possibile alla realtà di tutti. Ma perché i centri, le nuove organizzazioni che fanno vivere il potere di tutti, siano pienamente efficienti, è necessario che ogni individuo sia prima di tutto centro di sé stesso, aperto all’ascolto di sé, della propria interiorità, per riuscire ad instaurare un sano dialogo con gli altri. Ritroviamo qui l’accento sul rinnovamento delle coscienze per costruire una nuova socialità. Ma come si costruisce questo nuovo senso di comunità? Attraverso il metodo nonviolento, che, a differenza delle elezioni democratiche, connette, unisce le genti più disparate, perché è un metodo per tutti, anche per le minoranze emarginate che nella democrazia faticano a trovare posto. Come già accennato, la nonviolenza è il metodo preferibile perché scaturisce da un uomo nuovo, dal convincimento personale, da una persuasione che è prima di tutto autopersuasione. Proprio nell’atto di praticare la nonviolenza, l’apertura, il dialogo, si sta attuando il potere di tutti nel suo svolgersi.
La particolarità di Capitini, a differenza di altre elaborazioni politiche, è l’aggiunta religiosa nel solco della genealogia politica moderna ed in particolare del Novecento. Per Capitini, la democrazia non ha solo limiti politici, ma anche limiti religiosi. Ecco perché il centro non può sostituire il partito se non è accompagnato da una rivoluzione delle coscienze nella direzione della nonviolenza. È un innalzamento spirituale della politica laica ed al contempo stesso un distacco dalle religioni tradizionali, che, nell’ottica capitiniana, mirano all’oltre non curandosi di agire per il cambiamento della dimensione terrena.
In sintesi, in una fase ormai decennale in cui il modello della democrazia liberale viene messo in discussione, in cui si cristallizzano sempre più fenomeni di lunga durata quali l’atomizzazione della società, il distacco tra istituzioni e cittadini, la perdita della visione insieme delle questioni umane, il recupero dell’insegnamento di Capitini non risulta solo utile, ma oserei dire urgente. La cura per la comprensione di sé in funzione del dialogo con l’altro, a dispetto delle differenze che contraddistinguono gli individui, il perseguimento della pace attraverso la pratica della nonviolenza, l’esercizio dal basso del potere politico, sono elementi che costituiscono una ricchezza troppo grande perché rimanga inespressa. L’atto di ignorarla ha già dimostrato lungamente, nella storia dell’umanità, l’entità dei danni che ciò può provocare.
Note:
[1] Citazione contenuta in P. Polito, Il dovere di non collaborare. Storie e idee dalla Resistenza alla nonviolenza, Edizioni SEB 27, Torino 2017, p. 158.