Il pericolo nucleare - parlare di deterrenza non basta

di Ottavia Credi


La pace che, fino a qualche settimana fa, ha caratterizzato il mondo occidentale, ha per lungo tempo distolto l’attenzione sul rischio che rappresentavano – e continuano a rappresentare – i sistemi d’arma più pericolosi del Pianeta. Ma tre giorni dopo l’invasione russa in Ucraina, Putin ha ordinato ai vertici della Difesa russa di mettere le forze di deterrenza nazionali in stato di “regime speciale di allerta” – segnale che, secondo alcuni, è da considerare un chiaro riferimento all’arsenale atomico russo.

Dalla tragica notizia dell’invasione russa in Ucraina, si è assistito a numerosi dibattiti tra esponenti del mondo della difesa e della sicurezza, con asserzioni quali “Non possiamo permettere che il conflitto diventi nucleare”. Ciononostante, questo non sembra aver sollevato (almeno non nella misura in cui sarebbe necessario) la questione della non-proliferazione nucleare, per non parlare del disarmo, mentre si continuano a fare rimandi alla strategia di deterrenza.

È opinione di molti che sia necessario ridimensionare il ruolo della strategia di deterrenza nella sicurezza internazionale. Ciò che viene messo in questione in questa sede non è infatti la validità di questa teoria – piuttosto, si invita a considerare i rischi cui tale strategia pone inevitabilmente il genere umano nel momento in cui la valuta di scambio è a base di uranio o plutonio.

La stessa esistenza e disponibilità di utilizzo di sistemi atomici permette loro di passare da strumenti di deterrenza a mezzi impiegabili in un conflitto, potenzialmente tramite un solo folle gesto di un despota disperato.[1] In questo contesto, la deterrenza nucleare sostiene che la chiave per sventare un conflitto atomico consiste nel renderlo, concretamente, assolutamente possibile e virtualmente realizzabile – un paradosso oltremodo rischioso.[2]

È inoltre significativo sottolineare il pericolo di andare incontro ad una tendenza a sottovalutare i conflitti fino al sorgere della minaccia nucleare: alzando il livello del rischio (in questo caso, la completa distruzione di popolazioni, ecosistemi, e conseguenti sistemi economici, industriali, e via dicendo) riformula la prospettiva di chi guarda dall’esterno, stravolgendola fino ad arrivare a considerare accettabile ciò che sta al di sotto di quella soglia, a dispetto di vittime civili, invasione di territori, e distruzione di culture.

Oltre al pericolo oggettivo rappresentato dalla potenza russa, vale la pena sottolineare che il Paese abbraccia una dottrina definita escalate to de-escalate. Per sommi capi, essa prevede l’impiego di sistemi nucleari tattici e a bassa portata (low-yield) per fronteggiare una minaccia convenzionale e raggiungere una situazione di vantaggio. Dunque, pur di evitare una sconfitta, se posta di fronte a un’aggressione convenzionale la Russia prevede la possibilità di avviare un’escalation nucleare.

Ma le armi nucleari sono pericolose anche nelle mani di quello che molti considerano l’alleato numero uno. Basti pensare che gli Stati Uniti continuano a rifiutare di adottare la cosiddetta politica del no first use, vale a dire un impegno a ricorrere al nucleare solo in risposta ad un attacco nucleare nemico. In altre parole, ad oggi gli Stati Uniti si riservano il diritto di dare avvio ad un conflitto nucleare senza provocazioni di proporzionale intensità.

Stati Uniti e Russia non sono gli unici Paesi al mondo con sistemi atomici. Sono, tuttavia, quelli con il maggior numero di testate e sistemi di lancio. Qualsiasi sforzo di non-proliferazione nucleare dovrà quindi, necessariamente, essere bidirezionale: non si tratta di insistere sulla buona volontà statunitense a facilitare il processo di non-proliferazione e disarmo nucleare, ma piuttosto di impiegare tutti gli strumenti messi a disposizione dal multilateralismo per raggiungere accordi che stabilizzino il treaty-based regime che sta alla base di questi sforzi.

Tale regime, faticosamente costruito nel tempo per garantire stabilità, è stato messo a dura prova negli ultimi anni, in particolare durante l’amministrazione Trump. Nel 2018, gli Stati Uniti hanno formalmente annunciato il proprio ritiro rispettivamente dal Piano d'azione congiunto globale, meglio conosciuto come Accordo sul nucleare iraniano o JCPOA. A ciò è seguita, nel 2019, la caduta del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (INF Treaty), un accordo bilaterale tra Russia e Stati Uniti. Nonostante le minacce trumpiane, nel 2021 l’amministrazione Biden è almeno riuscita a salvare il Nuovo Trattato di riduzione degli armamenti strategici (New Start).

A livello NATO, la strategia di deterrenza si basa (anche) sull’arsenale atomico dei suoi membri – o in quanto detentori di armi proprie (Stati Uniti, Francia e Regno Unito), o perché ospitanti armi non-strategiche americane sul proprio territorio (Italia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Turchia) – fattore che mette in discussione l’impegno della NATO sul fronte non-proliferazione e disarmo.[3]

Se tutti Paesi dell’Alleanza membri sono firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare (NPT), ciascun membro ha invece sollevato perplessità circa la validità del più recente Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPNW). La differenza fondamentale tra i due trattati consiste nel fatto che l’NPT autorizza il possesso di armi atomiche da parte di cinque Paesi (quelli che hanno iniziato lo sviluppo e la proliferazione dei propri arsenali prima del 1968, anno di entrata in vigore del Trattato), mentre il TPNW esclude categoricamente la legittimità del possesso di un arsenale nucleare per tutti i Paesi del mondo.

I membri dell’Alleanza hanno talvolta alluso all’impossibilità di aderire contemporaneamente ad entrambi gli accordi.[4] È tuttavia rilevante sottolineare che il disarmo nucleare rappresenta uno dei princìpi cardine dello stesso NPT, che il TPNW descrive come “pietra angolare del disarmo nucleare e del regime di non proliferazione”. L’NPT evita, però, di specificare un termine ultimo entro cui attuare tale onere.

La cosiddetta bottom line è tragicamente semplice: finché continueranno ad esistere armi nucleari, l’umanità sarà soggetta al rischio di olocausto nucleare. La soluzione nel lungo termine quindi non può e non deve essere un incessante sforzo di modernizzazione degli arsenali nucleari delle grandi potenze, ma piuttosto un impegno costante verso la non-proliferazione che, quanto prima, si traduca in disarmo – il tanto agognato nuclear zero.

Viene quindi da domandarsi, “What’s next?”. La comunità internazionale potrebbe anzitutto approfittare dei drammatici sviluppi recenti per riportare sul tavolo, in modo serio e costruttivo, il dibattito su non-proliferazione e disarmo nucleare. Un simile impegno verso la riduzione (seguita dall’eliminazione) degli arsenali atomici dovrebbe necessariamente concretizzarsi nell’ambito di un rinnovato slancio verso il consolidamento del regime internazionale di controllo, tramite il rafforzamento dei trattati esistenti (anche con l’inclusione di altri attori di rilievo in accordi multilaterali, primo fra tutti la Cina) e l’adozione di trattati più vincolanti.

 

Note:

[1] S. Young, “Making Sense of Ukraine, Russia, and Nuclear Threats”, Union of Concerned Scientists, 4 marzo 2022.

[2] R. Green, “The new nuclear deterrence and disarmament crisis”, openDemocracy, 3 aprile 2019.

[3] K. Kubiak, “Reviewing NATO’s Non-proliferation and Disarmament Policy”, Istituto Affari Internazionali, febbraio 2019.

[4] T. Erästö, “The NPT and the TPNW: Compatible or conflicting nuclear weapons treaties?”, Sipri, 6 marzo 2019.

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