Cronache culturali - 03/19
Paris vaut bien une messe?
Parigi val bene una messa?
Il discorso di Benedetto Croce contro il Concordato (24 maggio 1929)
a cura di Pietro Polito
Come che sia, accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente di più di Parigi, perché è un affare di coscienza (Benedetto Croce).
Gli accordi del Laterano vennero firmati a mezzogiorno dell'11 febbraio 1929 nella sala dei Papi del Palazzo Laterano e furono ratificati con la legge del 27 maggio 1929, n. 810. La discussione sui disegni di legge riguardanti l’esecuzione del Trattato e del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia ebbe luogo alla Camera nelle tornate del 10, 11, 13, 14 maggio 1929 e al Senato in quelle del 23, 24 e 25 maggio.
Nell’ultima tornata venne votato l’ordine del giorno presentato dal sen. Greppi con il quale il Senato plaudiva “alla felice soluzione della questione romana, che sancisce l’indipendenza e la sovranità del Sommo pontefice per l’esercizio della Sua missione universale e l’irrevocabile riconoscimento, per parte della Santa Sede, di Roma Capitale del Regno d’Italia sotto la Dinastia di Casa Savoia; traendo dallo storico evento, compiutosi per opera del Regime Fascista, i più fausti auspici per l’avvenire della Patria”. Nel 1929 il Senato comprendeva 439 senatori, di cui 94 nominati in quell’anno. Presidente del Senato era Luigi Federzoni (29 aprile 1929 - 2 marzo 1939).
Nella tornata del 24 maggio 1929, il grande filosofo liberale Benedetto Croce pronunciò un discorso giustamente divenuto celebre, esprimendo un voto contrario “a nome mio e di pochi colleghi”1. Insieme al senatore Croce, tra i contrari: Luigi Albertini, Alfredo Bergamini, Emanuele Paternò di Sessa, Francesco Ruffini e Tito Sinibaldi. Croce definisce le linee del discorso nelle “molte conversazioni” avute con “Ruffini, Albertini e altri amici” (1 e 3 aprile 1929)2. Il 17 maggio egli annota di avere già scritto “nelle prime ore della mattina il breve discorso da tenere al Senato, secondo gli accordi presi con gli amici”3.
Invito a rileggere le parole di Croce che interrogano ancora la nostra coscienza4. Il filosofo chiarisce “innanzitutto” che l’opposizione al Concordato non significa affatto una un’ostilità “da parte nostra all’idea della conciliazione dello Stato italiano con la Santa Sede”. Anzi egli incoraggia “la tendenza a metter fine a un dissidio” che giudica deleterio tanto per lo Stato quanto per la Chiesa. Croce contesta il modo in cui viene attuata l’idea della conciliazione con il disegno di legge proposto all’esame del Parlamento.
Centrale nel discorso di Croce è il richiamo al Risorgimento italiano che “ha le sue prime origini alla fine del Seicento e fu segnato dalla lotta e dall'ascensione del pensiero e delle istituzioni laiche di fronte alla Chiesa”, una lotta che annovera figure illustri come “il giurista ghibellino” Pietro Giannone (la definizione è di Piero Gobetti) e il cattolico Alessandro Manzoni. Per Croce la libertà della Chiesa è un tratto del pensiero moderno, ma, “nel nuovo presupposto civile”, la Chiesa non può più avanzare “la pretesa di essere sostenuta nella lotta da pressioni esercitate sulle coscienze per mezzo del potere laico”.
Un altro tema affrontato da Croce è “l’anticlericalismo della massoneria” da un lato e all’“altro estremo”, per “contrappeso”, il “nero clericalismo”: “Chi ora vi parla, e che non è stato mai clericale, – dice Croce – sempre combatté nei suoi scritti la massoneria e l’antiquato anticlericalismo di cui faceva sfoggio”. La posizione di Croce è lontana tanto dal “più violento anticlericalismo” quanto dagli “eccessi del clericalismo”.
Croce guarda “con dolore” al Concordato tra la Chiesa e lo Stato fascista come alla “rottura dell’equilibrio” raggiunto tra la Chiesa e lo Stato liberale. Ma egli afferma di non temere “il risorgere in Italia dello Stato confessionale”. Col senno di poi, possiamo dire che è stata mal riposta la fiducia del filosofo nel “pensiero moderno, adulto e robusto”. Analogamente eccessiva e infondata si è rivelata quella nei chierici che “hanno [avrebbero] bisogno di attingere dai suoi [del pensiero moderno] tesori di sapere e dai suoi metodi e dal suo costume”.
Ai fautori del Concordato tra Chiesa e Stato fascista Croce muove “due obiezioni” fondamentali, che egli chiama anche due ipotesi. La prima obiezione è rivolta contro coloro che valutano “lietamente” il Concordato per gli “insperati e ottimi effetti” che produrrà per l’avvenire, “secondo il trito detto che dal male nasce il bene e dall’errore la verità”. Qui Croce, che “per tutta la sua vita ha fatto professione di studi storici”, ci impartisce una magistrale lezione di storia, protestando “contro la violenza o l’abuso che è di moda esercitare nel nome della «storia»”. Egli mette in guardia dal ragionare e calcolare “dal punto di vista della storia futura”. Compito dell’uomo di studi non è quello di sostituire “una congetturata e immaginata, e sia pure non improbabile, storia dell’avvenire al presente”, mentre compito dell’uomo politico è quello di non sottrarsi “al fastidioso compito, e pieno di responsabilità, di ricercare e fare semplicemente, nel presente, il proprio dovere”.
La seconda obiezione è rivolta contro coloro che giudicano il concordato come un capolavoro di “fine arte politica, da giudicare” non in base a “ingenue idealità etiche”, secondo “l’altro trito detto che Parigi val bene una messa”. Per meglio comprendere il ragionamento crociano, occorre spiegare l’origine del detto che “si suole attribuir leggendariamente a un grand’uomo, a un eroe della storia di Francia”. Il “grand’uomo” in questione è Enrico di Navarra, noto anche con il nome di Enrico il Grande (1553-1610). Alla fine del '500 la Francia era devastata da una terribile guerra civile conosciuta come la “guerra dei tre Enrichi”: Enrico di Navarra, appunto, alla guida degli Ugonotti che erano di religione protestante; Enrico di Guisa con la Santa Lega che era cattolica; Enrico III che era il re di Francia. Dopo anni di sanguinosa guerra vinse Enrico di Navarra, da allora Enrico IV, incoronato re nel 1594. Il nuovo re abiurò il calvinismo per il cattolicesimo pur di conquistare Parigi. Si attribuisce a lui la famosa espressione “Parigi val bene una messa” divenuta in seguito un modo di dire popolare che ancora oggi viene ripetuto e utilizzato per indicare che in alcune circostanze vale la pena di fare dei compromessi con la propria coscienza per raggiungere uno scopo ritenuto superiore.
Nel discorso di Croce è racchiusa una grande lezione di vita morale. Pur non negando la “sua ammirazione all’arte politica”, il filosofo ricorda le ragioni della morale rispetto a quelle della politica: “Come che sia, accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente di più di Parigi, perché è un affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero!”. Pertanto, conclude, ci sono situazioni in cui – e la scelta sul Concordato è tra queste – “il nostro voto [...] ci è imposto dalla nostra intima coscienza, alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza che ci domanda”.
A mio avviso il significato perenne del discorso di Croce sta nel ragionamento che egli svolge intorno alla formula “Parigi val bene una messa” con la quale quale si può riassumere ed esprimere il nucleo centrale del complesso rapporto tra etica e politica. Per alcuni Parigi val bene una messa, per altri Parigi non vale una messa. La ragione sta sempre dall’una o dall’altra parte e o viceversa? O invece forse non sarebbe meglio che le due posizioni trovassero un compromesso e convivessero tra loro nel rispetto reciproco? D’altra parte, lo stesso Croce che nel discorso del 24 maggio 1929 si schiera dalla parte di coloro per i quali Parigi non vale una messa, è uno dei massimi teorici dell’autonomia della politica dalla morale (nella scia di Machiavelli). Infatti, in più di una occasione egli sembra propendere per la posizione opposta. Faccio un esempio. Il 21 maggio 1947 quando si insediò il IV governo De Gasperi (DC, PLI), il primo senza la partecipazione dei comunisti, nella seduta del 21
giugno Croce motiva la fiducia dei liberali al “Ministero democristiano” con questo argomento: “E’ evidente che prima che un individuo si risolva ad essere liberale o democristiano è necessario che esso sia vivo; e l’Italia non potrà coltivare l’una o l’altra fede se muore, cioè se cade nella rovina economica, politica e morale che al presente la minaccia. Il dovere di salvare la nostra Patria primeggia sugli altri che a lei si riferiscono”5. Come dire che “la Patria val bene una messa”.
Non ignoro le varie giustificazioni della politica: lo stato di necessità; l’etica politica come un’etica speciale; la tesi della superiorità della politica sulla morale; la tesi che il fine giustifica i mezzi; l’etica politica come un’etica dei risultati e non dei principi6. Tuttavia ritengo che le diverse giustificazioni della politica non valgono a giustificare l’eliminazione del giudizio etico sull’azione politica quanto piuttosto a delimitare i confini della politica rispetto all’etica. Perché? Perché la politica può e deve essere giudicata non solo dal punto di vista dell’efficienza, cioè dell’idoneità dei mezzi al fine, ma anche in base alla bontà del fine. Vale a dire in base a “ingenue idealità etiche”. Confesso di appartenere alla esigua schiera di coloro “pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente di più di Parigi, perché è un affare di coscienza”. Faccio mie le parole di Alessandro Galante Garrone che, riprendendo Croce e Francesco Ruffini, afferma che “quando si tratta non dell’importanza di una Chiesa più o meno tradizionalmente e socialmente cospicua in quanto apparato istituzionale, ma della coscienza delle singole persone, il numero di queste non conta, ma conta solo la coscienza”7.
Note:
1. B. Croce, Discorsi parlamentari, presentazione di M. Pera, con un saggio di M. Maggi, redazione a cura di E. Campochiaro, il Mulino, Bologna 2002, pp. 173-177. (Discorsi parlamentari. Collana dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica. Nuova serie, 2). Il discorso di Croce è uno degli “ultimi interventi di opposizione ancora possibili in quella sede” e il suo “effetto pratico ... stava tutto nel suo valore di testimonianza morale” (M. Maggi, Croce filosofo politico, Ivi, p. 32.
2. B. Croce, Taccuini di lavoro, Arte Tipografica, Napoli 1987, III, pp. 125-126. A tratti nei Taccuini la prosa di Croce giunge ad “assumere quasi la forma di un «frammento di etica»”. Cfr. G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, il Mulino, Bologna 1989.
p. 108.
3. B. Croce, Taccuini di lavoro, III, cit., p. 127
4. D. Menozzi, Croce e il Concordato del 1929, in M. Ciliberto (a cura di), Croce e Gentile, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2016, pp. 573-580.
5. B. Croce, Sulle comunicazioni del governo /Assemblea costituente, seduta del 21 giugno 1947, in Id., Discorsi parlamentari, cit. p. 189. Il compromesso tra democristiani e liberali è “una occasione assai alta”, transitoria, “dopo la quale ciascun partito ripiglierà la sua opera propria e specifica” (p. 189).
6. N. Bobbio, Etica e politica, in Id., Elementi di politica, a cura di P. Polito, Einaudi, Torino 2010, pp. 46-94.
7. A. Galante Garrone, Un affare di coscienza. Per la libertà religiosa in Italia, Baldini & Castoldi, Milano 1996, p. 60.
IL DISCORSO DI BENEDETTO CROCE, SENATO DEL REGNO, TORNATA DEL 24 MAGGIO 1929
Sui disegni di legge riguardanti l’esecuzione del Trattato e del Concordato tra la Santa Sede e l’Italia
Parlo a nome mio e di pochi colleghi i quali, non potendo dare il loro assenso al presente disegno di legge, non hanno voluto, d’altro canto, in questione così grave, astenersi dalle sedute del Senato o allontanarsi dall’Aula. Anche per questo sentimento che è prevalso in noi, son sicuro che il Senato presterà alcuni minuti d’attenzione a quel che sono per dire.
Dichiaro innanzitutto, perché non abbia luogo equivoco, che nessuna ragionevole opposizione potrebbe sorgere da parte nostra all’idea della conciliazione dello Stato italiano con la Santa Sede. La dichiarazione è perfino superflua, in quanto è troppo ovvia. La legge stessa delle guarentigie avrebbe avuto il complemento della conciliazione, se la Santa Sede l’avesse accettata, o se, movendo da essa, avesse aperto trattative, che non erano escluse e potevano essere coronate da accordo. I ripetuti tentativi, fatti nel corso di più decenni, dall’una e dall’altra parte, comprovano la tendenza a metter fine a un dissidio che apportava danni o inconvenienti all’una e all’altra parte, e non starò ora a cercare per minuto a quale delle due li apportasse maggiori.
Allo Stato italiano si direbbe di no, segnatamente dopo la prova dell’ultima e grande guerra, nella quale la legge delle guarentigie si dimostrò affatto adeguata alla situazione e tale da lasciare al Pontefice la piena libertà; come, per altro verso, i risultati della guerra, con la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, estinsero gli ultimi timori di rivendicazione di carattere internazionale del potere temporale.
La ragione che ci vieta di approvare questo disegno di legge non è, dunque, nell’idea della conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata, nelle particolari convenzioni che l’hanno accompagnata, e che formano parte del disegno di legge.
All’annunzio dell’avvenimento fu subito detto in Italia, e ancor più nella stampa estera, che la politica ecclesiastica che lo Stato italiano inaugurava col
concordato era, nei suoi principii, l’abbandono di quella per ottant’anni seguita dal Risorgimento e nella Italia una. Ciò è vero; ma non è, storicamente, tutta la verità. Perché l’intera verità storica è che il Risorgimento italiano ha le sue prime origini alla fine del Seicento e fu segnato dalla lotta e dall’ascensione del pensiero e delle istituzioni laiche di fronte alla Chiesa. Il suo primo grande nome è quello di Pietro Giannone, martire di questa causa, perseguitato, arrestato con inganno, tenuto prigioniero per oltre un dodicennio, e morto in prigione. Questo tratto originario della nuova Italia non si perse mai, neppur quando si formò un partito nazionale-liberale-cattolico, che accolse uomini insigni, da tutti ancor oggi ricordati e venerati, e un poeta che si chiamò Alessandro Manzoni. Quel partito, giova rammentarlo, non venne respinto e condannato dai liberali, ma dalla Chiesa.
La conseguenza di quel movimento fu, come a voi tutti è noto, l’attenuazione e quasi la sparizione del giurisdizionalismo, e la libertà riconosciuta alla Chiesa nell’ambito dello Stato italiano. Era il solo dono che il pensiero moderno potesse offrire alla Chiesa, ancorché i clericali lo considerassero come un cavallo di Troia, un dono fatale; sul qual punto non è il caso di discutere, giacché è evidente che fatale sarebbe riuscito solo se la Chiesa, nella libera gara, non avesse attestato la capacità di mantenere il suo sistema spirituale e morale. Di ciò spettava a lei la responsabilità e la cura, perché, nel nuovo presupposto civile, non le era più lecita la pretesa di essere sostenuta nella lotta da pressioni esercitate sulle coscienze per mezzo del potere laico.
Ma, comunque i clericali pensassero o pensino in proposito, è certo che la Chiesa, per effetto del nuovo ordine, non solo poté svolgere la sua opera e la sua propaganda, ma ottenne una considerazione di rispetto, e anche di reverenza, che le era venuta meno in Italia per secoli presso i migliori. Una prova sola, ma fulgida, vi addurrò a conferma del mio detto: la letteratura italiana, la quale, da Dante a Foscolo, e anzi fino al Carducci della prima epoca, è tutta, nella lirica e nell’oratoria, nella satira e nella commedia, risonante di accenti anticlericali, spesso feroci o sarcastici.
Or bene: questi accenti si spensero quasi del tutto nella letteratura della nuova Italia: lo stesso Carducci sedò presto quel suo giovanile furore, vagheggiò un giorno
di conciliarsi col Papa, e finì col sentire la dolcezza della religione avita, cantando nostalgicamente da poeta l’Avemaria.
Si obietterà che ben persisteva l’anticlericalismo della massoneria. Ma esso era l’altro estremo, e voleva fornire il contrappeso, del nero clericalismo; e l’opinione prevalente si mostrava severa all’uno come all’altro, e più forse all’anticlericalismo, che si giudicava, per non dir altro, cosa di pessimo gusto, peccato d’incoltura nella classe colta. Chi ora vi parla, e che non è stato mai clericale, sempre combatté nei suoi scritti la massoneria e l’antiquato anticlericalismo di cui faceva sfoggio; e perciò si sente ora in piena coerenza con sé stesso, animato da quella buona fede, senza la quale non si ardirebbe né parlare né scrivere.
Consapevoli del passato solleciti dell’avvenire, noi guardiamo con dolore la rottura dell’equilibrio che si era stabilito. Non già che io tema, come si è fatto da taluni alle prime notizie degli accordi, il risorgere in Italia dello Stato confessionale, che porga il braccio secolare al Santo Uffizio e riaccenda i roghi, o che dia validità all’Indice dei libri proibiti, o risottometta l’educazione della gioventù ai concetti gesuitici. Queste aspettazioni e queste speranze possono nascere ed essere coltivate in chiusi luoghi muffiti, ma non nel vasto mondo operoso, pieno di sole e di calore. Il pensiero moderno, adulto e robusto, sfida simili assalti, o velleità di assalti, e osserva ironicamente che i chierici stessi hanno bisogno di attingere dai suoi tesori di sapere e dai suoi metodi e dal suo costume quel che loro serve per non fare meschina figura nella letteratura e nella scienza e nella vita sociale. Ma, certo, ricominceranno spasimanti e sterili lotte su fatti irrevocabili e pressioni e minacce e paure, e i veleni versati nelle anime dalle pressioni, dalle minacce e dalle paure. In questi ultimi mesi, io ho avuto più volte occasione di sentir fremere il più violento anticlericalismo non solo e non tanto in quelli della nostra fede, ma in altri che sono, o uomini del Governo, dalla vostra parte; e ho ricevuto le confessioni di sacerdoti, di degni sacerdoti, che erano gravemente turbati e pensosi di quel che si preparava per le sorti della Chiesa nell’Italia e nel mondo.
Voi direte che, a infrenare gli eccessi del clericalismo, si provvederà con nuove disposizioni di legge, e già qualcosa ne contengono gli altri disegni che verranno in discussione dopo di questo. Naturalmente, diventato legge questo disegno, come accadrà anche senza il nostro voto, noi non potremo respingere quelle disposizioni che varranno a diminuire i pericoli. Ma perché prima allargare per poi frenare? Perché prima errare per poi correggere? Per ora, si tratta di questo disegno di legge e non di altri che verranno; e su questo, così com’è precisamente formulato, siamo chiamati a dare il nostro voto. D’altronde, la necessità stessa di modificare o meglio determinare o diversamente interpretare le disposizioni di esso, comprova appunto che l’equilibrio è stato rotto, e che ricominciano i contrasti che i cosiddetti concordati si tirano dietro e pei quali già i vecchi giuristi napoletani del Settecento, cattolici ma devoti allo Stato, ne deprecavano i negoziati e la conclusione.
Restano due obiezioni, che io chiamerei piuttosto due ipotesi, e che, come ipotesi e non come effettivo pensiero degli uomini del Governo, mi piace considerare per un momento, e che vi prego di ricevere solo come tali, e in quanto necessarie alla compiuta esposizione del mio pensiero.
La prima è di coloro che salutano lietamente l’avvenimento che mercé questo disegno di legge si adempie, perché lo stimano fecondo d’insperati ottimi effetti per l’avvenire, secondo il trito detto che dal male nasce il bene e dall’errore la verità. Insperati e ottimi effetti, che variano dalla previsione che gli anticlericali che per esso il Papato soffrirà quella fiera scossa che nessuna massoneria era stata capace di dargli, all’altra la previsione più mite che il nuovo e duro regime di difesa e di offesa renderà chiaro ai chierici il gran vantaggio che era per essi nel regime della separazione, e li persuaderà di ciò di cui un Cavour, un Ricasoli, un Giovanni Lanza, nobili spiriti cristiani, non erano valsi a persuaderli.
Costoro, che vengono così ragionando e calcolando, si collocano dal punto di vista della storia futura; e chi tutta la sua vita ha fatto professione di studi storici, deve ancora una volta protestare contro la violenza o l’abuso che è di moda esercitare nel nome della «storia», trasferendo una congetturata e immaginata, e sia pure non
improbabile, storia dell’avvenire al presente, e sottraendosi così al fastidioso compito, e pieno di responsabilità, di ricercare e fare semplicemente, nel presente, il proprio dovere.
La seconda obiezione è: che quel che si è eseguito mercé il concordato sia un tratto di fine arte politica, da giudicare, non secondo ingenue idealità etiche, ma come politica, giusta l’altro trito detto che Parigi val bene una messa. Né io nego la mia ammirazione all’arte politica, né ignoro che quel trito detto si suole attribuir leggendariamente a un grand’uomo, a un eroe della storia di Francia, del quale si credette così d’interpretare il riposto pensiero, quantunque forse gli si fece torto, perché sta di fatto che egli non pronunziò mai quelle parole. Come che sia, accanto o di fronte agli uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri pei quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente di più di Parigi, perché è un affare di coscienza. Guai alla società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono, le fossero mancati o le mancassero!
E il nostro voto, comunque per altri rispetti si voglia giudicarlo, ci è imposto dalla nostra intima coscienza, alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza che ci domanda.
Benedetto Croce