LE MIE LETTURE

I consigli di lettura delle amiche e degli amici del Centro studi Piero Gobetti:

Paolo Bagnoli consiglia Una questione privata di Beppe Fenoglio (Einaudi, Torino 2014) 

Sembrava mi aspettasse di nuovo Una questione privata di Beppe Fenoglio quando sono entrato in libreria. Benché abbia tutta la produzione dello scrittore, non ho resistito a prendere quest’edizione che si avvale di un pregevole saggio introduttivo di Gabriele Pedullà. La prima edizione del libro è del 1986. La possiedo. A dire il vero non ricordo le sensazioni di allora, mentre ho ben presenti quelle che il Il partigiano Johnny (1868) mi lasciò dentro; a tanti anni di distanza, non sono scomparse.

Trovarmi il libro tra le mani e tuffarmi nella lettura è stato, come si suol dire, un tutt’uno. Via via che le pagine scorrevano, dal “remoto” della mia lettura, mi trovavo anch'io a “zonzare” – il termine è preso in prestito da Fenoglio – là dove Milton, partigiano badogliano roso dalla gelosia per Fulvia, viene travolto dall’amore, timido e bloccato, nei luoghi rivisitati dei loro  incontri; nello struggente rammarico di un tempo “privato” , presente ed incerto; di un futuro che non  sa se vi potrà essere. E’ un amore geloso quello che spinge Milton a vagare per le Langhe, sulla collina alta di Alba. Vuole dimostrare a se stesso quanto forte – quasi un destino – sia l’  amore per Fulvia, da tempo lontana e ora fidanzata dell’amico Giorgio, ”partigiano della brigata di Mango”,  catturato dai repubblichini. Milton lo vuole salvare dalla morte catturando un fascista per scambiarlo. Milton vaga nella Langa chiuso nel suo fuoco di amore, assurdo per come viene vissuto – in una maniera peraltro secca, testarda di un’anima che si sente persa in un amore ostinato e disperato per essergli sfuggito – nello scenario dello scontro partigiano. Ma la Resistenza, in questo romanzo, rimane sullo sfondo; tutto risulta privato: guerra e amore. Alla fine della lettura mi sono domandato cosa davvero Fenoglio, con quella scrittura che avvolge, abbia voluto dire. Penso che lo dovrò leggere di nuovo.

Santina Mobiglia consiglia Prevenire. Manifesto per una tecnopolitica di Paolo Vineis, Luca Carra e Roberto Cingolani (Einaudi, Torino 2020)

È l’ultimo libro che ho potuto acquistare in libreria prima della clausura, e mi sono trovata a leggerlo proprio nei giorni in cui uno degli scenari prospettati come emergenze da prevenire si materializzava nell’incombere del coronavirus, facendoci improvvisamente sperimentare gli effetti di quel “salto di specie” ormai noto persino attraverso l’informazione quotidiana. Ma al di là del caso specifico – esito già verificato dei processi di deforestazione, allevamento intensivo, urbanizzazione distruttiva di habitat consolidati – la lettura del breve ma denso pamphlet è una bussola di utile orientamento su molti temi del dibattito suscitato dall’attuale pandemia: il confronto e la necessaria cooperazione fra politici e scienziati; l’urgenza di una maggiore interazione fra epidemiologia ed ecologia; l’“internazionalismo” come unico orizzonte possibile per soluzioni lungimiranti, in contrasto con le chiusure sovraniste e nazionaliste entro confini ignorati dai virus come dai cambiamenti climatici. Più in generale viene tratteggiata una mappa della salute planetaria, che include quella umana e non si misura in base al Pil, quando il sovraffollamento della nostra specie (prossima agli 8 miliardi, con una crescita del 25% negli ultimi vent’anni) sta accelerando gli squilibri patologici dell’ecosistema. Del tutto alieni da nostalgie antimoderne e antitecnologiche, anzi a partire dalla premessa che nessuna era della storia prima della nostra abbia garantito tante conquiste fondamentali per l’umanità (dai successi contro le carestie ai vaccini, alle tecniche chirurgiche, fino alla speranza di vita), ciò che gli autori intendono mettere a fuoco è l’ambivalenza del cambiamento e i suoi rischi, insieme alle diseguaglianza sociali, territoriali ed educative, che hanno una dimostrata incidenza sulla salute e dunque sulla stessa qualità e speranza di vita. L’obiettivo dichiarato è un richiamo ai decisori a basarsi sulle evidenze scientifiche rispetto alle politiche da adottare, senza lasciare che le soluzioni siano affidate a puri meccanismi di mercato ma incorporando nelle scelte una valutazione preventiva dell’impatto. E il contributo della scienza nella prevenzione, tengono a sottolineare in quanto scienziati, non va inteso come presunzione di certezze, bensì come garanzia di un metodo in grado di fornire criteri di consapevolezza e cautela rispetto alle incertezze.

 

Alessandra Chiappori, giornalista e fondatrice del blog à contrainte, ci consiglia Le cose da salvare di Ilaria Rossetti (Neri Pozza 2020)

Una scrittura che risuona, parole che vibrano costruendo personaggi e muovendosi nel tempo per riempie perdite e risolvere i vuoti sui quali si affacciano, all’improvviso. Come quell’immagine del ponte spezzato, l’abisso sotto, le vite spezzate di chi era sopra quando è crollato. Le cose da salvare di Ilaria Rossetti, edito da Neri Pozza e vincitore dell’omonimo premio alla sua quarta edizione, prende come spunto narrativo il crollo del Ponte Morandi di Genova, mai nominato, come la città che tuttavia è presente nel suo mare, nel cimitero esposto al vento.

Gabriele Maestrale, professore di matematica in pensione, è l’unico abitante rimasto ostinatamente, e contro la legge, dentro uno dei palazzi pericolanti affacciati sul fiume e su ciò che resta del Ponte, segnale di una frattura oltre la quale il personaggio non riesce a procedere. Troppo repentino il salto, troppo poco il tempo per decidere cosa portare via, quali sono le cose da salvare. Così Gabriele resta a presidiare la casa nell’attesa di capire, in una metafora non voluta ma molto potente della strana primavera 2020, che ci ha legati in casa a fare i conti con le nostre cose da salvare.

A parlare in questo romanzo è Petra Capoani, giornalista trentenne che, tornata da un’esperienza post laurea a Londra, lavora in una redazione locale e ha il compito di intervistare Gabriele. Mentre il rapporto tra i due si costruisce tra dialoghi e scoperte nelle svariate occasioni che Petra ha di visitare la casa pericolante accolta dal suo abitante, e non solo, nella vita privata della ragazza c’è un forte scossone rappresentato dalla morte della madre. Un’altra perdita, che si somma a quelle simboleggiate dal Ponte e non superate da Gabriele.

Con una lingua lavorata e ricchissima, il romanzo affronta l’esperienza ogni volta personale degli strappi e dell’opportunità di procedere, andare avanti. Lo fa attraverso l’io narrante di Petra che, oltre a raccontare i fatti dando il passo della narrazione, scava nei ricordi a costruire la sua personale lista delle cose da salvare, tra la scoperta della perdita nell’infanzia, i traumi interiorizzati, il loro superamento mai scontato, i ricordi dei nonni, il dolore della lontananza dagli affetti. Un romanzo intimo e di grande forza, una lettura preziosa.

I consigli del gruppo di lavoro del Centro Gobetti

Anna Belforte propone L’arte di perdere di Alice Zeniter, Einaudi, Torino 2018

La lettura che propongo è un romanzo bellissimo, fresco e potente, che si distingue per l’acutezza e l’intensità di una bella scrittura e per l’accurata ricerca storica. Ci parla di paure, inquietudini, solitudini, silenzi, e ci mostra come la grande storia irrompendo nelle vite dei singoli le possa stravolgere, facendo perdere loro tutto: terra, onore, affetti, identità, memoria.

L’arte di perdere è un romanzo di Alice Zeniter, giovane scrittrice francese di origine algerina, che racconta il percorso di tre generazioni di una famiglia della Cabilia, tra l’Algeria e la Francia, dalla metà del secolo scorso ad oggi. Alì, Hamid e Naïma sono i protagonisti delle tre sezioni del romanzo. Naïma, alter ego della scrittrice, è una giovane francese che vive e lavora a Parigi; solo il suo nome, i suoi tratti somatici e la lingua cabila della nonna e dei parenti più anziani le ricordano che è un’immigrata di seconda generazione. Dell’Algeria lei non sa nulla tranne ciò che conosce tramite Wikipedia; suo nonno è morto prima che potesse interrogarlo, suo padre non ha mai voluto rispondere alle sue domande. Il passato della sua famiglia è avvolto nel silenzio, un silenzio di cui poco per volta si svelano le ragioni.

Tutto il romanzo ci parla di silenzi. C’è un silenzio ufficiale che ha fatto scendere un velo su una storia poco conosciuta anche dai francesi, la storia degli harki, termine usato in senso spregiativo come sinonimo di traditore, e riservato agli algerini che nel 1962, alla fine della guerra di Algeria, avevano deciso di restare francesi e di espatriare in Francia per timore di rappresaglie da parte del FLN.   C’è  il silenzio in cui si chiude Alì, il capofamiglia, che dal ruolo di patriarca benestante, onorato nella famiglia allargata e nel villaggio, è ridotto alla condizione di lavoratore analfabeta e sfruttato;  il silenzio del figlio Hamid, che in Algeria ha conosciuto un’infanzia libera e spensierata e poi gli orrori della guerra, e che sceglie di rimuovere il passato, di cancellare l’Algeria e di diventare a tutti gli effetti cittadino francese; il silenzio della nonna Yema, che non ha mai imparato il francese e non riesce a comunicare con i nipoti che non conoscono l’arabo. Una quantità di silenzi di qualità differenti, ma che vanno tutti nella stessa direzione, quella di scavare un vuoto che ha bisogno di essere colmato. E che l’autrice si propone di colmare con la scrittura.

Tutto il romanzo ci parla di perdite. Perdita dell’Algeria, della bellezza e della luminosità di quel paese, perdita delle terre e dei beni, dei parenti e dei morti rimasti laggiù, perdita della dignità, del rispetto, dell’amore filiale, perdita dell’identità e della memoria. E Naïma, che parte per l’Algeria per riempire i silenzi tramandati di generazione in generazione, dovrà imparare l’arte di perdere le radici.  Il romanzo deve il titolo a una lirica di Elisabeth Bishop, riportata verso la fine della narrazione. Non è la vita una lunga catena di perdite?  Perdite a tutti i livelli, di piccole cose come le chiavi o l’orologio, e di cose immense, come un paese, un continente. Con la perdita bisogna convivere e l’antidoto alla perdita è il ricordo. Per lasciarsi alle spalle il passato è necessario ricordare e condividere il ricordo. Solo allora la perdita diventa la condizione del movimento della vita.

Davide Simonetti, attore e fondatore del Collettivo di Resistenza Teatrale Nouvelle Plague, consiglia Le macchine di Munari, di Bruno Munari (Einaudi, 1942)

Giocare vuol dire capire, quindi conoscere e memorizzare tante cose che possono essere utili per la creatività: perché il gioco comporta il coinvolgimento di tutto l’individuo, tutti i suoi sensi [Bruno Munari, 1992]

Sulla retrocopertina di questo libro – a lungo ritenuto solo per bambini –  il lettore troverà l’indicazione “Da 10 anni in poi”. In poi, per l’appunto. Il gioco è l’unica terapia che l’essere umano non dovrebbe smettere mai: di facile assunzione e immediati benefici, piace a tutte e tutti, prima e dopo i pasti.

Un campionario degli oggetti più indispensabili e fini a se stessi che siano mai stati concepiti dall’umano ingegno! Ogni articolo è presentato con precisi coloratissimi schemi illustrati corredati dalle istruzioni per l’uso, redatte da un fantomatico venditore porta-a-porta puntualissimo, efficientissimo, eloquente e suonato come pochi. Apritegli, invitatelo a entrare e mettetevi comodi: imparerete ad addomesticare le sveglie e mortificare una zanzara, a prevedere le aurore e rendere musicale il vostro singhiozzo!

Le Macchine di Munari è piccolo un libro audace e coraggioso pubblicato per la prima volta nel 1942, nel pieno di una guerra orribile, in un’Italia violenta: il dolcissimo sforzo di un ex futurista amante della pace compiuto per offrire una via di fuga ai bambini di tutte le età (anagrafiche, storiche, geologiche).

Tra le difese essenziali per reagire ai tempi bui non dimentichiamo mai la Fantasia: se c’è una parte dell’animo umano difficilmente imbrigliabile è proprio questa. Bruno Munari, mostrandoci le regole del gioco e poi invitandoci a trasgredirle, ci insegna a risvegliarla, lasciarla agire, nutrirla per restare – sempre, in ogni condizione – liberi. Immaginare senza confini vuol dire poter capire a fondo le cose del mondo; giocare vuol dire esperienza di vita.

La lettura è raccomandata in compagnia, a voce alta.

Federica Savini, fondatrice della casa editrice Aras edizioni, consiglia il libro di Eula Biss, Vaccini, virus e altre immunità. Una riflessione sul contagio (Ponte alle Grazie, 2015).

Il libro di Eula Biss, saggista di Chicago che insegna alla Northwestern University, è uscito nel 2014 negli Stati Uniti, per poi essere tradotto in italiano nel 2015 da Albertine Cerruti per Ponte alle Grazie, negli anni in cui il dibattito attorno al movimento no-vax nel nostro paese non aveva ancora assunto i toni incandescenti scatenatisi con la “legge Lorenzin”.

La rilettura oggi di questo libro è utile non solo per rinfrescarsi le idee sull’importanza della vaccinazione, ma anche perché stimola una serie di riflessioni su quello che oggi stiamo vivendo a causa della pandemia di Covid-19, in particolare il ruolo e l’entità del nostro corpo in questo contesto.

“I nostri corpi possono appartenerci, ma noi stessi apparteniamo a un corpo più grande costituito da molti corpi”, sostiene Eula Biss. L’idea che il mio corpo sia anche il tuo e viceversa rafforza quella è sempre stata la sua duplice natura, fisica e politica, o forse meglio, civile. Quando andiamo a vaccinarci, nel momento esatto in cui “l’ago penetra la nostra pelle i due corpi politico e fisico si fondono”. La vaccinazione intesa come atto civile individuale, nella sua applicazione di massa, diventa civiltà del gregge, o dell’alveare, come preferisce definirla l’autrice.

Parallelamente, quale migliore dimostrazione della quarantena a ricordarci giorno dopo giorno che non siamo solo corpi autonomi e fisici, ma che siamo corpi politici, scudo dei più deboli, autodifesa della collettività? Il vaccino contro il Covid-19 oggi è questa quarantena e nell’attesa che un giorno possa arrivarne uno, confidiamo nella scienza, come “prodotto del branco” e quindi “impresa collettiva” (James Surowiecki).

La bellezza di questo saggio, oltre alla divulgazione scientifica circa il tema del contagio, è data dalle numerose sollecitazioni intellettuali: dalla contaminazione tra medicina e letteratura - da Bram Stoker al mito del tallone di Achille – all’autobiografia, come la maternità dell’autrice e le scelte legate alla salute del suo bambino, dalla storia e la filosofia alle testimonianze dirette e i giornali, in un dibattito sul tema che si costruisce pagina dopo pagina in maniera intelligente e originale.

Giulia Bocciero, attrice e fondatrice del Collettivo di Resistenza Teatrale Nouvelle Plague, consiglia Il problema del tempo vissuto di Eugène Minkowski (a cura di A. Molaro, Mimesis, 2017)

In questi giorni, nel silenzioso caos di numeri e notizie, la figura del medico sembrerebbe quasi assomigliare a quella dell’eroe tragico che, davanti agli occhi di tutti, lotta contro il destino e gli errori commessi dai padri perché privi di consapevolezza o peccatori di hybris. Oltre ai tanti medici in prima linea, vi sono altre figure mediche che tentano di contenere gli effetti del virus anche su chi non lo contrae ma ne vive le conseguenze dell’impatto socioeconomico. Chiamare eroi questi “medici dell’anima” poco si confà all’immaginario collettivo, scarsamente dettagliato e troppo legato a una certa tradizione cinematografica americana piena di chaises longues, (non è nemmeno il nostro obiettivo!) resta però una grave indifferenza nei confronti delle varie situazioni critiche di reclusione da quarantena. In questo libro di Minkowski (1885-1972) credo ci siano, in particolare, due elementi estremamente interessanti: l’analisi della percezione di quel che il medico-filosofo chiama tempo vissuto, rielaborando il pensiero bergsoniano alla luce dell’esperienza psichiatrica, e la discussione critica sull’oggettivazione del malato di mente. Entrambi gli argomenti sono ancora caldi, il primo perché d’interesse universale (mai come durante una quarantena, in cui il tempo sembra non passare affatto) e il secondo perché la tanto acclamata e discussa legge 180 – che, come sappiamo, ha compiuto quarant’anni neanche due anni fa (1978-1980) – sebbene abbia eliminato materialmente una storica istituzione totale, non ha certo risposto alle necessità di riconoscimento del disagio mentale come realtà trasversale sia a livello sociale sia a livello temporale. La presentazione di Lorenzo Calvi, contenuta in quest’ultima riedizione italiana (Mimesis, 2017), descrive lo stile di Minkowski come incantevole, ricco di metafore e sinestesie che permettono di addentrarsi nel discorso psicopatologico con delicatezza e, allo stesso tempo, con una precisione che solo i grandi autori sanno evocare. Specie nei momenti di tensione, è interessante provare a, con le parole leggere di Calvino, tenere d’occhio i movimenti della Medusa attraverso lo specchio: rifiutando la visione diretta ma non la realtà del mondo dei mostri in cui ci è toccato di vivere.

I consigli del gruppo di lavoro del Centro Gobetti

La nostra bibliotecaria, Franca Ranghino, consiglia Colibrì di Sandro Veronesi (La Nave di Teseo, 2019)
 
Ho letto il libro di Sandro Veronesi Il colibrì con uno stato d’animo che variava dalla curiosità al timore: i suoi libri mi suscitano sentimenti contraddittori, sento di essere attratta dalla sua scrittura, ma nello stesso tempo la temo: disorientamento e calore che si ripetono a fasi alterne. I libri di Veronesi ti costringono a confrontarti con la profonda e amara realtà della vita. Chi ha letto altri libri di questo scrittore lo sa (ricordate Caos calmo?): nei suoi romanzi la vita scorre e la sentiamo palpitare, ma altrettanto forte sentiamo vibrare il dolore, la morte, lo smarrimento.
Veronesi non si tira indietro di fronte alla sofferenza umana, anzi la guarda dritto negli occhi, ce la racconta senza cautela perché la vita di ciascun individuo è fatta di esperienze amare, di perdite, di improvvise assenze, ma anche di amore e di passione e di come sia vana la nostra volontà di fronte a un amore che fugge da noi e che forse, proprio per questo, ci rapisce tutta la vita. Mano a mano che leggevo, il timore si è dileguato lasciando pieno campo alla curiosità e l’intervallarsi delle lettere che il protagonista scrive alla donna che ama e che non riesce ad avere, mi hanno permesso di intercettare quel caldo abbraccio che mi ha accompagnato fino alle fine del romanzo.
Il protagonista di questo libro si chiama Marco Carrera, la sua è una vita di perdite e di sofferenze soprattutto affettive: il suo passato sembra trascinarlo sempre più a fondo come un risucchio vorticoso d'acqua eppure lui non annega. Il suo è un movimento frenetico per rimanere saldo, fermo, consuma tutte le sue energie per mantenere quella posizione di sopravvivenza, resiste, supera le avversità e pur restando fermo sa prendersi cura dei propri affetti, certo a modo suo, come fa il colibrì uno degli uccelli più piccoli al mondo che ha la capacità di rimanere quasi immobile, a mezz'aria, grazie a un frenetico e rapidissimo battito d’ali (dai 12 agli 80 battiti al secondo). 
Nella tradizione degli aztechi si riteneva che l’anima del guerriero morto in battaglia si trasformasse in un colibrì, un guerriero quindi, instancabile nell’andare avanti nonostante l’inclemenza della vita, perché come ci dice il protagonista “I lupi non uccidono i cervi sfortunati, uccidono quelli deboli”. Temi come il dolore, la passione e la morte sono temi che da sempre accompagnano la nostra letteratura, ma Veronesi li rende molto contemporanei e, volutamente, li affronta sapendo di toccare nervi scoperti, come il tema della morte, materia viva che nessun legislatore ha il coraggio di affrontare e ci racconta come, in una situazione di “insopportabile dolore” il nostro protagonista decide di porvi rimedio senza chiedere l’autorizzazione ad un’autorità che si nasconde e non sa dare risposte. Ce lo dice, ci racconta la solitudine di un uomo di fronte alla malattia che non perdona, a lui viene chiesto di agire assumendo su di sé tutto il peso di questa responsabilità. Veronesi si ribella al silenzio e attraverso il suo protagonista affronta il problema del fine vita come scelta e libertà individuale che racchiude tanto dolore, ma in qualche modo questo dolore è mitigato dalle parole calde e commoventi di Marco Carrera nel finale del libro quando, circondato dagli affetti più profondi della sua vita, compie la scelta più dolorosa, quella che riguarda se stesso; le sue parole ci fanno riflettere, sanno  trasmetterci tutto l’amaro del mondo, ma anche tanta consapevolezza e serenità. 
Ultimo particolare che mi ha colpito positivamente è stata una breve frase che compare all’inizio del libro e si ripete identica alla fine, che l’autore ha scritto per se stesso, per Marco Carrera e per tutti noi: Preghiamo per lui e per tutte le navi in mare.
Un atto d’amore e di solidarietà perché su quelle navi in mare ci siamo tutti noi, nessuno escluso, un’umanità sofferente, unita da un’unica volontà di resistenza alle avversità. E non di meno, dedicata a tutti coloro che su quelle navi in mare, salvano una vita.

Nadia Terranova consiglia Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino

L'amore, l'estraneità al mondo, il sentirsi (ed essere) appestati, il sanatorio. Gesualdo Bufalino, con questo libro, esordì a più di sessant'anni e rivelò al mondo il suo talento che forse, senza lo sguardo e l'insistenza di Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia, sarebbe rimasto segreto. Un professore di provincia, in Sicilia, nella sua Comiso, che meraviglie nascondeva nel cassetto?
In questi giorni in cui la morte è dappertutto insieme al nostro bisogno di sapere chi siamo e cosa stiamo diventando, questo libro ci inchioda a domande inevitabili e a risposte complesse, in una lingua complessa e festosa.

I consigli del gruppo di lavoro del Centro Gobetti

Il direttore del Centro, Pietro Polito, consiglia Anna di Ammaniti
 
La vita non ci appartiene, ci attraversa. In questi giorni sperimentiamo sulla nostra pelle, tocchiamo con mano, forse comprendiamo davvero fino in fondo quanto Anna, una tredicenne cocciuta e coraggiosa, scopre nella sua lotta per la sopravvivenza, alla ricerca del fratellino rapito, in una Sicilia trasformata in una immensa rovina da un virus sconosciuto che uccide gli adulti e lascia in vita solo i bambini.
La realtà ha superato l’immaginazione. Lo scrittore/regista Niccolò Ammaniti stava girando una serie tv tratta dal suo romanzo Anna (Einaudi, Torino 2015) quando l’epidemia scoppiata in Cina è diventata una pandemia, dilagando in Italia, a poco a poco in Europa, negli Stati Uniti, nelle zone più “evolute” del mondo. La serie in otto puntate che andrà in onda su SKY è stata sospesa.
Chiuso in casa, come chi scrive, come tutti noi, in una intervista a “la Repubblica”, … Poi la finzione è diventata realtà (31 marzo 2020, p. 35), Ammaniti dice che “il virus ci ha ricordato che in fondo non siamo altro che filamenti di dna, ci ha costretti a riprendere contatto con le nostre fragilità”. E ancora: “Poi è arrivato il virus e improvvisamente siamo tornati animali, esseri biologici che si ammalano e muoiono e che devono fare i conti con la paura, qualcosa che credevamo di aver superato, appartenente a epoche passate e che la modernità ci aveva illuso di aver rimosso. Di colpo ci siamo ricordati che siamo fatti di cellule e carne”.
Anna si aggira in una isola in preda a spietate comunità di sopravvissuti e riconquistata da una natura feroce, dove si succedono città abbandonate, ruderi di centri commerciali, boschi arsi e desolati. La mamma le ha lasciato un quaderno con le istruzioni per farcela. Sulla copertina c’era scritto: “LE COSE IMPORTANTI”.
Anna coltiva la speranza di superare il male. Ella vuole oltrepassare la striscia di mare che separa la Sicilia dalla Calabria perché vuole dimostrare che c’è qualcosa oltre l’orrore che la circonda. A poco a poco scopre che le regole del passato non valgono più. Bisogna inventarne delle altre.  Nella realtà le cose andranno allo stesso modo? Certo la grande emergenza in cui (ci) siamo precipitati finirà. Ma non sono così sicuro che alla fine noi rimetteremo in gioco le condizioni di esistenza che siamo abituati a dare per scontate.

Sulla discrezione pubblica: i consigli di Franco Sbarberi

Il tema della discrezione pubblica è imposto in questo periodo dal virus che incombe sul mondo, ma in modo più metaforico è stato suggerito anche dal comportamento fattivo e non eclatante che hanno assunto alcuni protagonisti del Novecento in momenti cruciali della loro vita. Ne parla il volume di Jan Brokken, I giusti, Iperborea 2020, raccontando le vicende del console olandese Jan Zwartendijk, che nel 1940 firmò migliaia di visti per consentire a profughi ebrei di sfuggire ai nazisti e di trovare riparo a Shanghai: “Era un uomo riservato. Non gli interessava il ruolo di eroe. Aveva paura come tutti in quei giorni. Ma… non ha fatto finta di non vedere”. Qualche anno prima Pierre Zaoui, L’arte di scomparire, Il Saggiatore 2015, teorizzava a sua volta il “vivere con discrezione”: farsi discreti è ben più che un limitarsi: “è creare, dare, amare, lasciar essere”. Per me ottantaduenne vivere con discrezione non è l’arte di scomparire, ma consiste nell’affrontare con calma e riservatezza la vecchiaia sia con i familiari sia con gli amici. D’altra parte l’amicizia, come dice Franco La Cecla, Essere amici, Einaudi 2019, presuppone anche la sua revoca, perché “non è né un diritto né un dovere, ma la condizione del legame libero tra cittadini”.  

Giorgio Fontana consiglia Le transizioni di Pajtim Statovci (Sellerio 2020 traduzione di Nicola Rainò)

Detesto l'espressione "giovane scrittore": ho dovuto subirla come una graziosa concessione — scrittore sì, ma intendiamoci: giovane — fino al paradosso per cui, a trentanove anni, sono ancora definito così; a volte persino "giovanissimo". Ciò detto, non si può che rimanere ammirati per la bravura dimostrata dal finlandese di origini kosovare Pajtim Statovci nel libro d'esordio, Le transizioni, pubblicato quando l'autore era giovane davvero — per l'esattezza, appena ventiquattrenne.C'è qualcosa di straniante in una simile padronanza stilistica, in una tale maturità raggiunta: leggendolo ho avuto fin dall'inizio la sensazione di trovarmi di fronte a un talento assoluto. Non amo profondermi in esagerazioni, nemmeno quando sono entusiasta di un romanzo, ma stavolta trattenersi è difficile: Le transizioni è opera di uno scrittore straordinario dal quale non possiamo che attenderci una carriera luminosa (e del quale già attendiamo, con ansia, i romanzi non ancora pubblicati in italiano).In un certo senso, Le transizioni è la forma più moderna possibile del Bildungsroman: racconta in prima persona la formazione del protagonista, Bujar, dall'adolescenza nella miseria dell'Albania post-Hoxha — memorabili le pagine sul funerale del padre e sui vagabondaggi per Tirana e Durazzo con l'amico Agim — a una prima giovinezza spesa in giro per il mondo, da Roma a Madrid a Berlino a Helsinki: sempre sul filo dell'indigenza o della sconfitta personale, direi in perenne convalescenza da un trauma non ricomponibile. E sullo sfondo — vista con gli occhi di un ragazzo — la storia europea, e italiana, degli ultimi trent'anni: le navi che solcano da Durazzo verso Bari, il razzismo popolare, il pregiudizio e la paura dei più poveri.L'estensione geografica del romanzo, sorprendente perché compressa con molta bravura in così poche pagine, non cancella tuttavia la centralità dell'Albania come luogo per eccellenza del testo: una terra raccontata con iperrealismo e in tutta la sua crudeltà e bellezza (e forse conviene leggere questo libro accanto a un'altra recente uscita, il Dialogo sull'Albania di Alexander Langer e Alessandro Leogrande, due straordinari intellettuali scomparsi troppo presto). Non a caso il titolo originale finlandese è Il cuore di Tirana.Ma Le transizioni è anche uno studio sul corpo e sull'identità sessuale, raccontata con pudore e dolcezza, con tutto il rigore che la sofferenza comporta: Bujar, gender fluid, è spesso respinto per il suo oscillare fra un genere binario e l'altro; gioca abilmente con le sue capacità seduttive, e tuttavia è anche oggetto di violenze terribili ma narrate con un'obiettività che ricorda la grande tradizione di romanzieri nordici, da Hamsun a Dagerman.In effetti la quantità di violenza sociale, corporale e psicologica contenuta in questo romanzo è impressionante: eppure non c'è riga che stona, non c'è mai ricorso alla retorica o al pietismo; tutto scorre con naturalezza restituendo al lettore un'intima meditazione sul dolore che possiamo infliggere agli altri dopo che tanto dolore ci è stato gratuitamente arrecato, e di come il desiderio non possa mai spegnersi, e di come l'oblio a volte sia il male più necessario di tutti: "La gente emigra da un Paese all'altro per avere migliori condizioni di vita, e nulla si dice o si fa disinteressatamente, ogni azione comporta la promessa di un domani migliore, il desiderio di raggiungere qualcosa che voglio, qualcosa che ritengo indispensabile. Non sarei ancora in grado di capire che mi converrebbe restare qui, aggrappato al bordo del mio desiderio, con la brama ardente di qualcosa che non potrò mai avere."

Centro studi Piero Gobetti

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