I consigli di lettura delle amiche e degli amici del Centro studi Piero Gobetti:
Sembrava mi aspettasse di nuovo Una questione privata di Beppe Fenoglio quando sono entrato in libreria. Benché abbia tutta la produzione dello scrittore, non ho resistito a prendere quest’edizione che si avvale di un pregevole saggio introduttivo di Gabriele Pedullà. La prima edizione del libro è del 1986. La possiedo. A dire il vero non ricordo le sensazioni di allora, mentre ho ben presenti quelle che il Il partigiano Johnny (1868) mi lasciò dentro; a tanti anni di distanza, non sono scomparse.
Trovarmi il libro tra le mani e tuffarmi nella lettura è stato, come si suol dire, un tutt’uno. Via via che le pagine scorrevano, dal “remoto” della mia lettura, mi trovavo anch'io a “zonzare” – il termine è preso in prestito da Fenoglio – là dove Milton, partigiano badogliano roso dalla gelosia per Fulvia, viene travolto dall’amore, timido e bloccato, nei luoghi rivisitati dei loro incontri; nello struggente rammarico di un tempo “privato” , presente ed incerto; di un futuro che non sa se vi potrà essere. E’ un amore geloso quello che spinge Milton a vagare per le Langhe, sulla collina alta di Alba. Vuole dimostrare a se stesso quanto forte – quasi un destino – sia l’ amore per Fulvia, da tempo lontana e ora fidanzata dell’amico Giorgio, ”partigiano della brigata di Mango”, catturato dai repubblichini. Milton lo vuole salvare dalla morte catturando un fascista per scambiarlo. Milton vaga nella Langa chiuso nel suo fuoco di amore, assurdo per come viene vissuto – in una maniera peraltro secca, testarda di un’anima che si sente persa in un amore ostinato e disperato per essergli sfuggito – nello scenario dello scontro partigiano. Ma la Resistenza, in questo romanzo, rimane sullo sfondo; tutto risulta privato: guerra e amore. Alla fine della lettura mi sono domandato cosa davvero Fenoglio, con quella scrittura che avvolge, abbia voluto dire. Penso che lo dovrò leggere di nuovo.
Una scrittura che risuona, parole che vibrano costruendo personaggi e muovendosi nel tempo per riempie perdite e risolvere i vuoti sui quali si affacciano, all’improvviso. Come quell’immagine del ponte spezzato, l’abisso sotto, le vite spezzate di chi era sopra quando è crollato. Le cose da salvare di Ilaria Rossetti, edito da Neri Pozza e vincitore dell’omonimo premio alla sua quarta edizione, prende come spunto narrativo il crollo del Ponte Morandi di Genova, mai nominato, come la città che tuttavia è presente nel suo mare, nel cimitero esposto al vento.
Gabriele Maestrale, professore di matematica in pensione, è l’unico abitante rimasto ostinatamente, e contro la legge, dentro uno dei palazzi pericolanti affacciati sul fiume e su ciò che resta del Ponte, segnale di una frattura oltre la quale il personaggio non riesce a procedere. Troppo repentino il salto, troppo poco il tempo per decidere cosa portare via, quali sono le cose da salvare. Così Gabriele resta a presidiare la casa nell’attesa di capire, in una metafora non voluta ma molto potente della strana primavera 2020, che ci ha legati in casa a fare i conti con le nostre cose da salvare.
A parlare in questo romanzo è Petra Capoani, giornalista trentenne che, tornata da un’esperienza post laurea a Londra, lavora in una redazione locale e ha il compito di intervistare Gabriele. Mentre il rapporto tra i due si costruisce tra dialoghi e scoperte nelle svariate occasioni che Petra ha di visitare la casa pericolante accolta dal suo abitante, e non solo, nella vita privata della ragazza c’è un forte scossone rappresentato dalla morte della madre. Un’altra perdita, che si somma a quelle simboleggiate dal Ponte e non superate da Gabriele.
Con una lingua lavorata e ricchissima, il romanzo affronta l’esperienza ogni volta personale degli strappi e dell’opportunità di procedere, andare avanti. Lo fa attraverso l’io narrante di Petra che, oltre a raccontare i fatti dando il passo della narrazione, scava nei ricordi a costruire la sua personale lista delle cose da salvare, tra la scoperta della perdita nell’infanzia, i traumi interiorizzati, il loro superamento mai scontato, i ricordi dei nonni, il dolore della lontananza dagli affetti. Un romanzo intimo e di grande forza, una lettura preziosa.
Anna Belforte propone L’arte di perdere di Alice Zeniter, Einaudi, Torino 2018
La lettura che propongo è un romanzo bellissimo, fresco e potente, che si distingue per l’acutezza e l’intensità di una bella scrittura e per l’accurata ricerca storica. Ci parla di paure, inquietudini, solitudini, silenzi, e ci mostra come la grande storia irrompendo nelle vite dei singoli le possa stravolgere, facendo perdere loro tutto: terra, onore, affetti, identità, memoria.
L’arte di perdere è un romanzo di Alice Zeniter, giovane scrittrice francese di origine algerina, che racconta il percorso di tre generazioni di una famiglia della Cabilia, tra l’Algeria e la Francia, dalla metà del secolo scorso ad oggi. Alì, Hamid e Naïma sono i protagonisti delle tre sezioni del romanzo. Naïma, alter ego della scrittrice, è una giovane francese che vive e lavora a Parigi; solo il suo nome, i suoi tratti somatici e la lingua cabila della nonna e dei parenti più anziani le ricordano che è un’immigrata di seconda generazione. Dell’Algeria lei non sa nulla tranne ciò che conosce tramite Wikipedia; suo nonno è morto prima che potesse interrogarlo, suo padre non ha mai voluto rispondere alle sue domande. Il passato della sua famiglia è avvolto nel silenzio, un silenzio di cui poco per volta si svelano le ragioni.
Tutto il romanzo ci parla di silenzi. C’è un silenzio ufficiale che ha fatto scendere un velo su una storia poco conosciuta anche dai francesi, la storia degli harki, termine usato in senso spregiativo come sinonimo di traditore, e riservato agli algerini che nel 1962, alla fine della guerra di Algeria, avevano deciso di restare francesi e di espatriare in Francia per timore di rappresaglie da parte del FLN. C’è il silenzio in cui si chiude Alì, il capofamiglia, che dal ruolo di patriarca benestante, onorato nella famiglia allargata e nel villaggio, è ridotto alla condizione di lavoratore analfabeta e sfruttato; il silenzio del figlio Hamid, che in Algeria ha conosciuto un’infanzia libera e spensierata e poi gli orrori della guerra, e che sceglie di rimuovere il passato, di cancellare l’Algeria e di diventare a tutti gli effetti cittadino francese; il silenzio della nonna Yema, che non ha mai imparato il francese e non riesce a comunicare con i nipoti che non conoscono l’arabo. Una quantità di silenzi di qualità differenti, ma che vanno tutti nella stessa direzione, quella di scavare un vuoto che ha bisogno di essere colmato. E che l’autrice si propone di colmare con la scrittura.
Tutto il romanzo ci parla di perdite. Perdita dell’Algeria, della bellezza e della luminosità di quel paese, perdita delle terre e dei beni, dei parenti e dei morti rimasti laggiù, perdita della dignità, del rispetto, dell’amore filiale, perdita dell’identità e della memoria. E Naïma, che parte per l’Algeria per riempire i silenzi tramandati di generazione in generazione, dovrà imparare l’arte di perdere le radici. Il romanzo deve il titolo a una lirica di Elisabeth Bishop, riportata verso la fine della narrazione. Non è la vita una lunga catena di perdite? Perdite a tutti i livelli, di piccole cose come le chiavi o l’orologio, e di cose immense, come un paese, un continente. Con la perdita bisogna convivere e l’antidoto alla perdita è il ricordo. Per lasciarsi alle spalle il passato è necessario ricordare e condividere il ricordo. Solo allora la perdita diventa la condizione del movimento della vita.
Giocare vuol dire capire, quindi conoscere e memorizzare tante cose che possono essere utili per la creatività: perché il gioco comporta il coinvolgimento di tutto l’individuo, tutti i suoi sensi [Bruno Munari, 1992]
Sulla retrocopertina di questo libro – a lungo ritenuto solo per bambini – il lettore troverà l’indicazione “Da 10 anni in poi”. In poi, per l’appunto. Il gioco è l’unica terapia che l’essere umano non dovrebbe smettere mai: di facile assunzione e immediati benefici, piace a tutte e tutti, prima e dopo i pasti.
Un campionario degli oggetti più indispensabili e fini a se stessi che siano mai stati concepiti dall’umano ingegno! Ogni articolo è presentato con precisi coloratissimi schemi illustrati corredati dalle istruzioni per l’uso, redatte da un fantomatico venditore porta-a-porta puntualissimo, efficientissimo, eloquente e suonato come pochi. Apritegli, invitatelo a entrare e mettetevi comodi: imparerete ad addomesticare le sveglie e mortificare una zanzara, a prevedere le aurore e rendere musicale il vostro singhiozzo!
Le Macchine di Munari è piccolo un libro audace e coraggioso pubblicato per la prima volta nel 1942, nel pieno di una guerra orribile, in un’Italia violenta: il dolcissimo sforzo di un ex futurista amante della pace compiuto per offrire una via di fuga ai bambini di tutte le età (anagrafiche, storiche, geologiche).
Tra le difese essenziali per reagire ai tempi bui non dimentichiamo mai la Fantasia: se c’è una parte dell’animo umano difficilmente imbrigliabile è proprio questa. Bruno Munari, mostrandoci le regole del gioco e poi invitandoci a trasgredirle, ci insegna a risvegliarla, lasciarla agire, nutrirla per restare – sempre, in ogni condizione – liberi. Immaginare senza confini vuol dire poter capire a fondo le cose del mondo; giocare vuol dire esperienza di vita.
La lettura è raccomandata in compagnia, a voce alta.
In questi giorni, nel silenzioso caos di numeri e notizie, la figura del medico sembrerebbe quasi assomigliare a quella dell’eroe tragico che, davanti agli occhi di tutti, lotta contro il destino e gli errori commessi dai padri perché privi di consapevolezza o peccatori di hybris. Oltre ai tanti medici in prima linea, vi sono altre figure mediche che tentano di contenere gli effetti del virus anche su chi non lo contrae ma ne vive le conseguenze dell’impatto socioeconomico. Chiamare eroi questi “medici dell’anima” poco si confà all’immaginario collettivo, scarsamente dettagliato e troppo legato a una certa tradizione cinematografica americana piena di chaises longues, (non è nemmeno il nostro obiettivo!) resta però una grave indifferenza nei confronti delle varie situazioni critiche di reclusione da quarantena. In questo libro di Minkowski (1885-1972) credo ci siano, in particolare, due elementi estremamente interessanti: l’analisi della percezione di quel che il medico-filosofo chiama tempo vissuto, rielaborando il pensiero bergsoniano alla luce dell’esperienza psichiatrica, e la discussione critica sull’oggettivazione del malato di mente. Entrambi gli argomenti sono ancora caldi, il primo perché d’interesse universale (mai come durante una quarantena, in cui il tempo sembra non passare affatto) e il secondo perché la tanto acclamata e discussa legge 180 – che, come sappiamo, ha compiuto quarant’anni neanche due anni fa (1978-1980) – sebbene abbia eliminato materialmente una storica istituzione totale, non ha certo risposto alle necessità di riconoscimento del disagio mentale come realtà trasversale sia a livello sociale sia a livello temporale. La presentazione di Lorenzo Calvi, contenuta in quest’ultima riedizione italiana (Mimesis, 2017), descrive lo stile di Minkowski come incantevole, ricco di metafore e sinestesie che permettono di addentrarsi nel discorso psicopatologico con delicatezza e, allo stesso tempo, con una precisione che solo i grandi autori sanno evocare. Specie nei momenti di tensione, è interessante provare a, con le parole leggere di Calvino, tenere d’occhio i movimenti della Medusa attraverso lo specchio: rifiutando la visione diretta ma non la realtà del mondo dei mostri in cui ci è toccato di vivere.