Editoriale 24 Giugno 2020

Bianca e la politica

di Marco Scavino

Credo sia importante che all’interno delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per ricordare e valorizzare la figura di Bianca abbia spazio anche qualche riflessione (accompagnata magari da studi e da ricerche adeguate) sulla dimensione strettamente politica delle sue molteplici attività. Certo, l’immagine pubblica più consolidata che abbiamo di lei è quella di una donna profondamente impegnata in battaglie – come suol dirsi – “civili e sociali”, condotte a partire dalla propria professione di avvocato e da posizioni di assoluta indipendenza, al di fuori di qualsiasi ideologismo. Come lei stessa teneva sempre a sottolineare (e lo ha ribadito anche nella conclusione del bellissimo volume autobiografico scritto con la collaborazione di Santina Mobiglia), Bianca privilegiava «il fare»: «e ho fatto quel che ho potuto, cercando sempre di essere me stessa». E non c’è dubbio che fossero proprio questi tratti di concretezza e di semplicità a colpire maggiormente chi aveva modo di frequentarla e di collaborare con lei; c’è un passo, ad esempio, del Diario di Giorgio Agosti, datato 16 dicembre 1960 e relativo a una serata trascorsa tra amici, da cui traspare molto bene questo suo fascino: «mi piace […] – scriveva Agosti –, col suo tono bonario che fa pensare a quello di Ada [Gobetti], della gente che non si dà arie e che non dà troppa importanza alla propria missione nel mondo».

Non va dimenticato, tuttavia, che Bianca aveva vissuto una fase fondamentale della propria vita, in piena maturità, dai ventiquattro ai trentasette anni, da militante del Partito comunista italiano. Vi aveva aderito durante la lotta di Liberazione, in condizioni di clandestinità, e vi era rimasta iscritta (ricoprendo anche incarichi di rilievo, soprattutto nella Camera del lavoro) sino al 1956, quando decise di uscirne in dissenso con la posizione assunta dal partito in merito ai fatti di Ungheria. Questo aspetto della sua biografia mi ha sempre colpito in maniera particolare, anche per l’importanza che lei stessa sembrava attribuirgli ogni qual volta lo rievocava, sottolineando come si fosse trattato di un passaggio tormentato, traumatico, vissuto con dolore, alla stregua di una svolta profonda e per certi versi definitiva. Tant’è vero che dopo quella rottura non aderì mai più ad alcun partito o formazione politica organizzata; e anche quando, molti anni più tardi, accettò di candidarsi alle elezioni per il Consiglio comunale di Torino e per la Camera dei deputati, prima nelle liste di Democrazia proletaria e poi in quelle del Partito democratico della sinistra[1], lo fece sempre da indipendente (un particolare che all’epoca aveva un senso politico ben chiaro e preciso).

Mi sembra significativo, però, che Bianca non abbia mai rinnegato la propria esperienza nel partito. Certo, militare nel Pci durante i primi anni della guerra fredda, in pieno stalinismo, non doveva essere stato affatto semplice, anzi: possiamo ben immaginare che le fosse costato parecchio, sotto molti punti di vista. Ho sempre pensato, però, che la decisione di uscirne, nel clima burrascoso della crisi ungherese e per questioni di principio che giustamente considerava irrinunciabili, non abbia mai messo in discussione il suo apprezzamento per il ruolo che il partito esercitava a livello sociale, come principale punto di riferimento per i movimenti dei lavoratori e per le loro istanze di emancipazione. Credo che in nessuno suo scritto o dichiarazione pubblica, né allora né in seguito, vi sia traccia di una critica veramente radicale a ciò che il Pci rappresentava in quel senso.

Il rapporto di Bianca con la politica fu dunque estremamente complesso e forse non privo di aspetti che, a distanza di tempo, possono sembrare contraddittori. Se per un verso, infatti, la scelta di non aderire più a formazioni organizzate rifletteva un marcato scetticismo nei confronti dei tradizionali canoni politici, per l’altro tutta la sua attività pubblica continuò comunque a svolgersi in una fitta trama di relazioni con partiti, sindacati, movimenti e associazioni della sinistra, condividendone le culture politiche e i valori fondamentali, cioè la prospettiva di una trasformazione radicale in senso socialista dei rapporti economici, sociali e istituzionali dominanti. Certo, a Bianca le ideologie e le relative discussioni interessavano poco, così come non la appassionavano affatto le polemiche e le schermaglie politiche fra organizzazioni (che pure credo seguisse con attenzione); preferiva fare politica in altri modi, a partire dalla propria professione e mirando sempre alla codificazione legislativa e all’effettiva esigibilità dei diritti, ma non c’è dubbio che lo facesse in un’ottica che continuava a considerare “rivoluzionaria”, cioè in grado di modificare strutturalmente i caratteri di fondo del sistema.  

La complessità della sua posizione politica, d’altra parte, risulta anche dall’atteggiamento che ebbe nei confronti dei movimenti nati attorno al 1968. Movimenti che sicuramente la interessarono molto e per i quali ebbe a tratti forti simpatie, vedendovi l’emergere – soprattutto nelle generazioni più giovani di studenti e di operai – di spinte contestative tanto vaste e profonde da mettere in crisi gli equilibri complessivi del sistema e quindi da aprire nuovi spazi di azione collettiva in tutti gli ambiti sociali[2]. Verso quei movimenti (e a maggior ragione verso le formazioni politiche che ne ebbero origine) credo però che Bianca avesse anche forti riserve, tanto per gli eccessi di verbosità rivoluzionaria e di ideologismo che li caratterizzavano, quanto per la loro esaltazione dello scontro a tutti i costi e per il loro orientamento decisamente anti-istituzionale. Sicché ne nacque un rapporto ambivalente, per cui negli anni Settanta Bianca veniva quasi considerata una figura vicina alla sinistra extra-parlamentare (soprattutto per la difesa di centinaia di imputati in vari processi, alcuni dei quali di grande risonanza pubblica), laddove in realtà i suoi rapporti con quell’area politica non andarono mai al di là dell’ambito strettamente professionale.

Sia pure in forme diverse, insomma, Bianca ha attraversato da protagonista tutte le fasi della storia politica del dopoguerra, compresa la crisi degli ultimi anni Settanta legata al dilagare della lotta armata; forse la fase più drammatica per lei dal punto di vista professionale e personale, stretta com’era tra il rifiuto politico e morale del terrorismo, da un lato, e la volontà di non venir meno al ruolo di garanzia dell’avvocatura neppure di fronte alle emergenze dell’ordine pubblico, dall’altro. E cercando poi di contribuire all’uscita da quel clima di degenerazione della lotta politica attraverso il recupero di una parte degli ex militanti della lotta armata a forme di confronto e di azione collettiva che non rispondessero più alla logica dell’inimicizia assoluta[3].

C’è un punto, tuttavia, della sua lunga biografia politica che mi sembra meritevole di qualche riflessione più specifica e, se possibile, di un approfondimento sul piano della ricerca storica. Mi riferisco all’atteggiamento di Bianca di fronte agli avvenimenti internazionali che a partire dal 1989 portarono alla fine dei regimi socialisti nell’est europeo e poi al tracollo dell’Unione sovietica. Avvenimenti di portata epocale, che toccarono profondamente le sinistre di tutto il mondo e che segnarono il definitivo tramonto di qualsiasi illusione sulla riformabilità dei sistemi socialisti (agli inizi di giugno del 1989 ci fu anche il terribile massacro di piazza Tien An Men a Pechino). Quali considerazioni fece in quelle circostanze una persona come Bianca, che di certo non si identificava più da molto tempo nel cosiddetto “socialismo reale”, ma che malgrado tutto credo avesse continuato in qualche modo a credere – come milioni di altre persone – che le rivoluzioni del Novecento, a partire da quella russa del 1917, sia pure attraverso contraddizioni profondissime avessero aperto una nuova epoca nella storia mondiale, segnata dai processi di emancipazione delle classi lavoratrici? Ho sempre pensato che Bianca in quel periodo abbia ancora una volta riflettuto e forse sofferto molto, giungendo alla conclusione che davvero del comunismo – comunque inteso – non fosse più possibile salvare nulla, neanche le più nobili suggestioni ideali. Non so se si possa dire che da quel momento Bianca si staccò definitivamente da alcune convinzioni, che avevano segnato larga parte della sua vita; chissà, forse Bianca non sarebbe d’accordo, o almeno non del tutto, e comunque non ne avrebbe certo fatto una questione di ideologie; il punto però mi sembra che meriti di essere approfondito.

Qualche indizio in merito lo si trova, credo, nelle ultime scelte politiche di Bianca, che avvennero proprio a cavallo di quegli anni. In Italia gli avvenimenti del 1989 avevano provocato un terremoto nella sinistra, soprattutto per la scelta da parte della segreteria nazionale del Pci di cambiare il nome e la sostanza del partito, lasciando cadere i riferimenti al comunismo e al marxismo, e orientandosi a una identità “progressista”, o “democratica”, che sembrava dare per ineluttabile il superamento delle grandi ideologie del Novecento. Bianca ovviamente non fu coinvolta nelle polemiche e nelle dinamiche politiche che ne seguirono all’interno del partito, alle cui travagliate vicende si direbbe continuasse a essere poco o punto interessata; ma credo non sia privo di significato il fatto che proprio nel 1990, l’anno della “svolta”, decidesse di accettare la candidatura al Consiglio comunale da parte del Pci, poi Pds (anche se sempre da indipendente), dopo aver a lungo collaborato invece con Democrazia proletaria. Così come non è certo irrilevante il suo successivo disinteresse per la formazione di un’area politica e istituzionale che si richiamava ancora al comunismo, sia pure con l’intenzione di “rifondarlo”. Credo che davvero, per Bianca, un’operazione di quel genere non avesse più alcun senso e non la condividesse per nulla. Per lei restavano validi e sempre attuali i valori della Costituzione, da difendere e realizzare; ma alla possibilità di arrivare a un sistema economico e sociale diverso dal capitalismo forse non credeva più. E se riandava alle tragedie nate dai tentativi di forzare la storia in quel senso, credo che non potesse sfuggire a un po’ di amarezza anche per alcune sue illusioni del passato. Ma questa, ripeto, è solo un’ipotesi.

 

Note:

[1] Dal 1985 al 1987 fu consigliera comunale (capolista alle elezioni) e dal 1987 al 1990 deputata per DP; dal 1990 al 1999 consigliera comunale per il Pds, la nuova denominazione assunta del Pci.

[2] Uno dei frutti più significativi di quella stagione (il più vicino agli interessi e alla sensibilità di Bianca) fu lo sviluppo in alcuni settori professionali di associazioni quali Magistratura democratica e Medicina democratica. Associazioni caratterizzate da un fortissimo radicalismo riformistico, che all’epoca fu però vissuto – dai settori politici più conservatori – come una minaccia alla stabilità delle istituzioni.

[3] Alcuni accenni al ruolo di Bianca in tal senso sono nel volume di Monica Galfré, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo. 1980-1987, Roma-Bari, Laterza, 2014.

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