Le cose che contano

di Pietro Polito

Finalmente! Finalmente siamo giunti alla fine del 2020, un anno difficile quant’altri mai, e, come si è soliti fare all’inizio di un nuovo anno, possiamo domandarci: “Quali sono le cose da salvare e quali sono quelle da non salvare?”. Per tentare una risposta è necessaria una sia pure rapida retrospettiva del 2020, un anno vissuto all’insegna della paura. Così è stato per molte/molti di noi, o almeno così è stato per me che non ho avuto paura di riconoscere di avere paura: “Confesso che nei giorni del confinamento così surreali da non sembrare veri, mi sono sforzato di tenere a freno il “pessimismo sul serio” di Piero Gobetti che ho ereditato dai maestri. [...] Se turbato guardo ai giorni della pandemia che abbiamo alle spalle e preoccupato provo a immaginare i giorni che verranno, confessione per confessione, ne faccio un’altra, che faccio in primo luogo a me stesso: confesso che ho paura. La paura è una forma di intelligenza. Solo gli stupidi non hanno paura, le persone coraggiose si espongono sapendo di avere paura”[1].
 
Dicendo meglio, il 2020 è stato un anno in cui si sono contrapposte paura e cultura, una sfida aperta che continuerà nel 2021 e che per ora, meglio non edulcorare la realtà, vede soccombere la cultura. L’anno cupo è stato contrassegnato da una tendenza omologante e venata di autoritarismo, di cui da ultimo è emblematico il caso della rivista della sinistra illuminista “Micromega”, fondata e diretta a Paolo Flores d’Arcais[2]. Con una letterina telegrafica il direttore della divisione stampa nazionale GEDI ha comunicato a Flores il perentorio avviso che da gennaio il glorioso bimestrale sarà costretto ad andare avanti al di fuori della casa madre, contando quasi esclusivamente sulle sue forze. Come ha scritto Vincenzo Vita, “i principali gruppi, chi più chi meno, si chiudono secondo le convenienze immediate delle proprietà e l’eresia non è perdonata”[3]. Ma ciò che più sconcerta in questa vicenda è il silenzio della cultura, vale a dire il silenzio finora pressoché totale delle tante illustri firme ospitate sulla rivista, nessuna delle quali si è interrogata pubblicamente sul perché della cessata pubblicazione. Un perché che si trova spiegato a chiare lettere nel recente manifesto programmatico sulla missione editoriale di GEDI che pro(im)pone ai suoi consociati di “evitare ogni forma di militanza”[4].
 
Alla paura la nostra piccola comunità gobettiana ha reagito prendendo un impegno preciso: “Non facciamo vincere la paura”. Per giorni, mesi, per quasi tutto l’anno, chi accedeva al sito del Centro studi Piero Gobetti per prima cosa s’imbatteva nella nostra denuncia del pericolo che la paura dominasse le nostre vite vincendo la nostra passione di iniziativa: “La paura, s’intende la paura che scaturisce dall’ignoranza, separa, isola, rinchiude, la cultura, s’intende la cultura che si basa sulla conoscenza, connette, avvicina, apre. Se non smarriamo la nostra umanità, se usiamo il nostro pensiero razionale, i lettori torneranno nelle biblioteche e nelle librerie, gli studenti nelle scuole, gli appassionati riprenderanno a frequentare i musei, i cinema, i teatri, i concerti, le conferenze, i seminari, i convegni, gli incontri, le presentazioni di libri, i festival e gli eventi culturali, ricomincerà la vita”.
 
Al fine di questo terribile 2020 a chi non sono venuti in mente i versi di un grande Poeta/cantautore, Lucio Dalla, che in uno dei suoi testi più ispirati, L’anno che verrà, sembra profeticamente descrivere ciò che abbiamo vissuto nell’anno passato e che con molta probabilità continueremo a vivere nel 2021: “Caro amico ti scrivo / Così mi distraggo un po’ / E siccome sei molto lontano / Più forte ti scriverò. / Da quando sei partito / C’è una grossa novità / L’anno vecchio è finito ormai / Ma qualcosa ancora qui non va. / Si esce poco la sera / Compreso quando è festa / E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra. / E si sta senza parlare per intere settimane / E a quelli che hanno niente da dire del tempo ne rimane. / Ma la televisione ha detto che il nuovo anno / Porterà una trasformazione / E tutti quanti stiamo già aspettando. / Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno / Ogni Cristo scenderà dalla croce / E anche gli uccelli faranno ritorno. / Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno / Anche i muti potranno parlare / Mentre i sordi già lo fanno. / E si farà l’amore ognuno come gli va…”.
 
Se posso dire la mia, non darei troppo peso all’oroscopo in televisione e nutrirei qualche dubbio riguardo ai proclami fiduciosi e rassicuranti di autorità politiche e religiose, premier, ministri, presidenti e/o “governatori”, sindaci, opinionisti, conduttori televisivi, influencer e così via. Oscillo tra gli amici che dal 2021 si aspettano o si augurano “più del meglio” e gli amici che mi mettono in guardia: “il meglio si farà attendere”. Ma propendo più per la seconda ipotesi. Infatti, se il 2020 certamente sarà ricordato come un “annus horribilis”, in quanto tutti, direttamente o indirettamente, ne siamo stati colpiti, non so se il 2021 sarà un “annus mirabilis”. Non so se dopo il Covid ci sarà la catastrofe o la rinascita.      
 
Temo che le cose continueranno ancora a non andare per il verso giusto. Certo non sarà tre volte Natale e non sarà festa tutto il giorno, certo Cristo non scenderà dalla croce, certo gli uccelli non faranno ritorno, certo non ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno... ma non facciamoci scippare di fare “l’amore ognuno come gli va…”. Tuttavia, per proteggerci certo non basterà né uscire poco la sera, compreso quando è festa, né mettere dei sacchi di sabbia vicino alla finestra. Non mi spaventa troppo se staremo senza parlare per intere settimane, ma mi preoccupa molto che continueranno a parlare coloro che non hanno niente da dire. Se ci pensiamo bene come ogni anno la sola vera grossa novità è che l’anno vecchio è finito ormai e che ne comincia un altro. Se il nuovo anno porterà una trasformazione, se sarà migliore o peggiore di quello passato, per la parte che ci riguarda come cittadine/i e come uomini e donne della cultura, dipenderà dai nostri pensieri, dalle nostre azioni, dalle nostre emozioni, dai nostri affetti, dai nostri sentimenti, dai nostri sogni, dai nostri progetti, dal nostro lavoro, dal nostro impegno, dalla nostra volontà di comprometterci, dalla nostra capacità di liberarci dalla paura.
 
Quanto alla politica, sottoscrivo la dichiarazione di un Ministro, rilasciata la vigilia di Natale: “Credo che il paese si salverà se il governo moltiplica gli sforzi, ma anche se ogni cittadino fa la sua parte”. I cittadini vivono da persone per bene quando hanno governi per bene e viceversa. L’esperienza e la storia dimostrano che buon senso, equilibrio e saggezza non sono le principali virtù dei potenti che si lasciano perlopiù guidare dai personalismi, dai pregiudizi, dalla vanità. Nell’anno che finisce la parte della politica era “creare le condizioni materiali necessarie a far sì che la profezia – Andrà tutto bene – si avverasse”[5]. Tutto è andato bene? Il Paese nel suo complesso ha retto e ha reagito bene. Ma non sottovaluterei gli argomenti di chi sostiene che non tutto è andato bene[6]. Quanto al futuro, nell’anno che verrà la politica farà la sua parte? Nel passaggio tra l’anno della pandemia e quello (come ci si augura) della post-pandemia paradossalmente la politica sembra avere cambiato discorso oppure, come le è più congeniale, essere tornata ai discorsi di sempre: caminetti, verifiche, rimpasti, crisi di governo[7]. Eppure la politica, come la intendeva ad esempio Piero Gobetti, è lotta anche aspra sui programmi e sulle idee e non litigiosità continua per la cessione o l’acquisizione di ministeri, sottosegretariati, presidenze, posti di potere. La (grande) politica è lungimiranza, prospettiva è non è scontro tra ambizioni personali, anche se viene contrabbandato per visione.
 
Tornando al grande contrasto tra paura e cultura, una delle voci storiche della nostra tradizione laica che si sono autorevolmente levate contro la paura è quella di Ada Prospero Marchesini Gobetti, a cui si deve un articolo impegnativo, Senza paura, pubblicato nel 1954 in “Educazione democratica”, che giova leggere o rileggere e su cui è utile riflettere. All’inizio dell’anno scolastico 1954, Ada si rivolge agli insegnanti e ai ragazzi che allora tornavano regolarmente a scuola dopo le vacanze svolgendo un discorso che potrebbe essere integralmente rivolto agli insegnanti e ai ragazzi di oggi che sono forzatamente lontani dalla scuola da mesi e che non sanno se e quando potranno stabilmente farvi ritorno.
 
La scuola è la madre di tutte le battaglie. Non a caso l’edizione europea di “Politico”, 25 dicembre 2020, ha scelto Anita Iacovelli, la studentessa torinese di 12 anni che insieme alla compagna Lisa è diventata il simbolo della lotta contro la didattica a distanza, tra le quattro donne leader dei movimenti di protesta in Europa che si sono distinte nel 2020. “Stanca di studiare a casa – si legge nelle motivazioni – si è vestita contro il freddo, ha preso il suo pc ed è andata a fare lezione davanti alla sua scuola. Quella che era una protesta personale è diventata fonte d’ispirazione per molti studenti che hanno fatto lo stesso in tutto il Paese”. Anita ha così commentato la notizia: “Sono contenta che finalmente i politici cominciano ad ascoltarci. Mi chiedono se mi sono ispirata a Greta Thunberg. La ammiro molto, però non mi sono ispirata a lei. Voglio solo tornare a scuola”. Le altre leader sono Assa Traoré, attivista francese che ha creato il movimento “Justice for Adama”, contro il razzismo e la violenza, Olga Kovalkova, la donna bielorussa che lotta per la democrazia nel suo Paese e la femminista polacca pro aborto Magda Gorecka.
 
Credo che Anita, Assa, Olga, Magda, sottoscriverebbero le parole di Ada che hanno un valore generale per tutte/tutti noi: “Non lasciamoci scoraggiare dalle difficoltà certo gravissime. Non lasciamoci convincere a una passività rassegnata dai molti ostacoli che incontriamo”[8]. Come ci insegna Ada, il compito dell’educazione è quello di “vincere la paura” e di “educare alla libertà”: “Purtroppo – riflette – se facciamo il bilancio della nostra giornata – e della nostra vita – vediamo come una notevole percentuale dei nostri atti sia determinata dalla paura: paura d’offendere i potenti o d’ingagliardire i meschini; paura di perdere il posto (e il pane) o la dignità serena della coscienza; paura di pensare con la nostra testa, di dire quello che pensiamo, di difendere e sostenere quanto abbiamo detto; paura insomma della nostra stessa libertà”[9]. Quando è una questione di principio, il silenzio non è d’oro.
 
Ebbene l’invito di Ada a ragionare non paurosamente ma criticamente e a non avere paura della nostra libertà è drammaticamente attuale ieri come oggi – “educare i giovani alla paura è deplorevole sempre, più che mai lo è per quel che riguarda la scuola”[10] – ed è una buona guida per orientarci nel nostro lavoro. La pandemia ha condizionato in modo radicale le nostre vite, le nostre abitudini e, soprattutto, il nostro modo di fare cultura. Gli spazi culturali sono stati duramente colpiti e, per quanto il digitale possa rappresentare un’opportunità di crescita e innovazione[11], non potrà mai sostituire il piacere dell’incontro, degli sguardi che si incrociano e del confronto tra personalità. Per noi gobettiani/gobettiane, la cultura è prima di tutto relazione: ovvero incontro e scontro, capacità di ascoltare ed entrare in contatto senza avere la pretesa di assimilare l’altro a sé.
 
Rispondendo in linea generale alla domanda posta all’inizio: “Quali sono le cose da salvare e quali sono quelle da non salvare?”, consiglio vivamente di leggere uno dei migliori romanzi del 2020, Le cose da salvare, di Ilaria Rossetti[12]. Una storia intelligente con riflessioni importanti che assume la tragedia del ponte spezzato di Genova come una metafora delle nostre vite precarie. Il protagonista, Gabriele Maestrale, sceglie la via della fuga estrema, la protagonista, Petra Capoani, ha paura degli squali – che è una “paura saggia” –, ma non ha paura della vita e si assumerà le sue responsabilità. Il tema esistenziale del libro è: Che cosa salvare quando “la vita intorno è silenziata”, quando “tutto implode, collassa, scolora”, quando “tutto crolla e non c’è tempo, non c’è tempo per alcun bilancio?”[13]. Più precisamente la domanda è: “Cosa portiamo in salvo quando il cielo ci cade sulla testa e la nostra vita ci viene all’improvviso rubata?”. Da eventi inimmaginabili come il crollo di un ponte sopra le nostre case o, come è accaduto nel 2020, l’insorgere della pandemia.
 
Ciascuno ha la sua lista delle cose da salvare. Mi riconosco nella lista che si può leggere alla fine di questo bel libro: “Le cose sbagliate, le cose di passaggio; le cose che si ameranno per sempre; le cose in cui crediamo”. Le cose sbagliate o ritenute tali possono rivelarsi più feconde di quelle che si presumono vere; le cose di passaggio aprono nuove strade mentre quelle definitive alzano frontiere; le cose che si ameranno per sempre non sono soggette ai nostri umori o a quelli del tempo; le cose in cui crediamo danno un senso alla nostra vita: “Per le cose da salvare non ci deve essere fretta”[14]. Le cose che avevamo messo in cima alla lista e che ci sembravano le più importanti col tempo possono rivelarsi effimere e transitorie. In breve direi che le cose da salvare sono quelle nate dalla cultura mentre quelle da non salvare sono quelle dettate dalla paura. Se la paura che deriva dall’ignoranza isola, la cultura che si fonda sulla conoscenza è la “connessione più tenace”[15]. Tra le cose da salvare non c’è la paura, c’è la cultura, se la cultura non è accontentare tutti e subito, se la cultura non si misura in base a ciò che si può avere, se la cultura è scoprire, sorprendere, meravigliare, se la cultura non “assume un valore solo se esibita”[16]. Le cose da salvare sono le cose che contano.
 
 
 
Note: 
 
[1] Pietro Polito, La cultura dell’iniziativa, Aras edizioni, Fano (PU) 2020, p. 22.
[2] Vincenzo Vita, Il virus censorio ha attaccato Micromega. Domani a chi tocca?, “il manifesto”, 16 dicembre 2020. Una tendenza che trova rispondenze in una fascia ampia dell’opinione pubblica. Marcello Sorgi, Se gli italiani preferiscono l’uomo forte e decisionista, “La Stampa”, giovedì 24 dicembre 2020, p. 6.
[3] Ibidem.
[4] Gad Lerner, “Micromega” chiude e nessuno dei “suoi” protesta contro GEDI, “il Fatto Quotidiano”, giovedì 24 dicembre 2020, p. 13.
[5] Massimo Giannini, Dopo il virus aspettiamo la rinascita, “La Stampa”, giovedì 24 dicembre 2020, p. 1.
[6] Tra gli altri: Luca Carra, Gli errori della politica nella gestione del Covid, “Domani”, giovedì 24 dicembre 2020, p. 3.
[7] La differenza tra il rimpasto e la crisi di governo è che il rimpasto indica i cambiamenti all’interno della squadra di governo senza che ci siano le dimissioni dell’intero esecutivo, la crisi di governo indica la caduta dell’esecutivo a cui può seguire l’insediamento di un nuovo governo o l’indizione delle elezioni politiche generali da parte del Presidente della Repubblica.
[8] Ada Marchesini Gobetti, Educare per emancipare (scritti pedagogici 1953-1968), a cura di M. Cristina Leuzzi, con nota introduttiva di Goffredo Fofi, Lacaita, Manduria 1982, p. 181. Sulla pedagogia di Ada Gobetti: Id., Non siete soli. Scritti da “il Giornale dei genitori” (1959-1968), introduzione e cura di Angela Arceri, postfazione di Goffredo Fofi, Centro studi Piero Gobetti, Torino, Edizioni Colibrì, Milano 2018.
[9] Ada Marchesini Gobetti, Educare per emancipare (scritti pedagogici 1953-1968), cit., p. 182.
[10] Ivi, p. 184.
[11] Elena Loewenthal, Benedetta la rete dove la cultura imprigionata dal virus trasmigra e resiste, “La Stampa”, giovedì 24 dicembre 2020, Speciale 2020, p. XII. L’acronimo GMD – Grande Migrazione Digitale – descrive efficacemente la tendenza prevalente della cultura alla prova della pandemia: Gabriele Ferraris, La cultura dal reale al virtuale ma bisogna adeguarsi al medium, “Corriere della Sera”, Torino, lunedì 28 dicembre 2020, p. 5.
[12] Ilaria Rossetti, Le cose da salvare, Neri Pozza, Vicenza 2020.
[13] Ivi, pp. 34 e 63.
[14] Ivi, p. 159. Cfr. Domenico De Masi, Quella lentezza che ci mancava, “il Fatto Quotidiano” domenica 27 dicembre 2020, p. 19.
[15] Ivi, p. 10.
[16] Ivi, p. 105.

Centro studi Piero Gobetti

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