Difesa della rivoluzione liberale 

A 120 anni dalla nascita di Piero Gobetti.
A 60 anni dalla fondazione del Centro studi Piero Gobetti

 di Pietro Polito

(In corso di pubblicazione sul prossimo fascicolo di “Critica liberale”, Biblion edizioni)


In nessuna delle accezioni correnti della rivoluzione liberale s’intravvedono i lineamenti del volto del giovane liberale rivoluzionario né le caratteristiche fondamentali della sua rivoluzione: l’una storica: l’antifascismo, l’altra teorica e politica: il conflittualismo. Ebbene, che cosa c’è di antifascista – nel senso gobettiano – negli improvvisati ripetitori della “rivoluzione liberale”? Nulla. Eppure non s’intende la rivoluzione liberale se non in contrapposizione al fascismo, sia quello storico sia quello eterno, che, ogni volta che se ne presenta l’occasione, fa riemergere la testa. Quanto al conflitto, da tempo il carattere dominante della lotta politica in Italia è la tendenza all’unanimismo: l’autorità viene prima della libertà.
 
All’inizio di una crisi planetaria di cui non conosciamo né la durata né la fine, Piero Gobetti ci parla ancora. Le parole che egli scriveva in La nostra fede (5 maggio 1919) sono quanto mai adatte al tempo che viviamo. La prima guerra mondiale si era da poco conclusa, quando Gobetti affermava che l’indifferenza “pervade ed irrigidisce la vita d'oggi”, contrapponendogli “questa passione profonda – che non diventa abitudine, e neppure azione inconsulta, ma resta normalità intensa, conquista progressiva e non intermittente o frammentaria”. L’indifferenza è una “malattia che consuma ed uccide, bassezza per cui i nervi si rompono all’atto stesso della loro funzione. Tutta la vita moderna è estenuata da questa spaventosa anemia”. La distinzione tra indifferenza e impegno coincide con quella tra immoralità e moralità: “Non può essere morale chi è indifferente. L’onestà consiste nell’avere idee, e credervi e farne centro e scopo di se stesso. L’apatia è negazione di umanità, abbassamento, di se stessi, assenza di idealità”.[1] Non siamo indifferenti perché sappiamo di non sapere e non perché presumiamo di conoscere la verità.
 
Ricorrendo nel 2021 i 120 anni della sua nascita e il Sessantesimo anniversario della fondazione del Centro studi a lui intitolato, fondato il 16 marzo 1961 e da allora attivo nella sua casa, in via Fabro 6, può giovare in particolare ricapitolare in una prospettiva di storia delle idee il discorso sulla “rivoluzione liberale”.[2] Anzi, direi che è necessario, perché, dopo la fine della Prima Repubblica, la formula è stata sovente rivendicata sul terreno della polemica politica. Tanto a destra quanto a sinistra. In primis Silvio Berlusconi è sceso in campo con Forza Italia nel segno di una presunta rivoluzione liberale. Forse più per emulazione che per contrasto, Massimo D’Alema è andato al governo attraverso un accordo tra il Partito Democratico della sinistra e l’UDR di Francesco Cossiga con l’obiettivo di una rivoluzione liberale. Al massimo ascendente della sua parabola, prima che iniziasse la discesa, alcuni hanno visto nel Matteo Renzi “rottamatore” il profilo di una nuova rivoluzione liberale. Da ultimo, Marcello Pera, l’ideologo che già aveva ispirato Berlusconi, si è convinto che «la Lega sia l’unica forza politica nella quale ci sia un terreno fertile sul quale provare a coltivare una nuova classe dirigente» (parole testuali) e, pertanto, si è intestato «la missione di convertire Matteo Salvini al liberalismo, alla rivoluzione liberale, al sovranismo liberale, insomma a qualcosa di liberale».[3]
 
Nelle varie riprese politiche della formula per lo più non si fa riferimento al suo inventore e propagatore in Italia, Piero Gobetti, e ciò, tutto sommato, per lo stesso Gobetti è un bene. Infatti, in nessuna delle accezioni correnti della rivoluzione liberale sopra elencate s’intravvedono i lineamenti del volto del giovane liberale rivoluzionario né le caratteristiche fondamentali della sua rivoluzione: l’una storica: l’antifascismo, l’altra teorica e politica: il conflittualismo. Ebbene, che cosa c’è di antifascista – nel senso gobettiano – negli improvvisati ripetitori della “rivoluzione liberale”? Nulla. Eppure, come vedremo di seguito, non s’intende la rivoluzione liberale se non in contrapposizione al fascismo, sia quello storico sia quello eterno, che, ogni volta che se ne presenta l’occasione, fa riemergere la testa. Quanto al conflitto, da tempo il carattere dominante della la lotta politica in Italia è la tendenza all’unanimismo: l’autorità viene prima della libertà.
 
La Rivoluzione Liberale è il titolo della rivista più matura[4] e del libro più significativo di Piero Gobetti.[5] In questa espressione si trova racchiuso il senso profondo del suo pensiero e della sua azione politica. Infatti, la rivoluzione liberale è la formula politica con la quale egli riassume gli ideali che lo agitarono durante la sua breve ma intensa vita e con la quale designa il tipo di rivoluzione auspicato per il nostro Paese.
 
È una formula inedita per quegli anni, quando la rivoluzione per eccellenza era quella d’Ottobre, una rivoluzione socialista, marxista, leninista e non certo liberale, anche se ai suoi inizi tale è stata considerata da Gobetti. Egli si riteneva e fu uno scrittore rivoluzionario; auspicò una rivoluzione che non si risolvesse nella sostituzione di nuovi apparati ai vecchi apparati di potere; credette a suo modo nell’unità di teoria e prassi, nel senso che – scrive nel ’24, contro gli apolitici – «non c’è preparazione che non sia già lotta attuale, non si può pensare un presente di studi e un domani d’azione»;[6] s’impegnò perché l’Italia, che non aveva avuto né la riforma (Germania) né la rivoluzione (Inghilterra, Francia e Russia), avesse la sua rivoluzione.
 
Sono passati più di cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e la rivoluzione sembra essere diventata un ferro vecchio del Novecento. Non sono pochi coloro i quali sostengono che la parola e il concetto mantengano la loro vitalità sul piano tecnologico (rivoluzione informatica, digitale, cibernetica), mentre sul terreno politico da lungo tempo è entrata in disuso o, quando vi si ricorre, se vi si ricorre, è usata prevalentemente, per contrastarla, dai conservatori. Da parte dei progressisti, da un lato si preferisce usare termini più generici come “movimento”, “mutamento”, “riforme”, “riformismo”, dall’altro si assiste alla tendenza a privilegiare la R(r)esistenza alla R(r)ivoluzione, ritenendo che negli ultimi anni si sia consumato il divorzio fra le due prospettive. Mentre il primo termine non si sarebbe logorato, nonostante l’oblio delle lotte di liberazione antifasciste combattute in Europa fra il 1940 e il 1945, diversamente il secondo si è definitivamente usurato, nonostante la prestigiosa storia che a partire dalla Presa della Bastiglia ha contrassegnato gli ultimi due secoli.
 
Ma davvero si tratta di una vecchia idea obsoleta improponibile negli anni Duemila? Siamo proprio così sicuri che non possa essere più ripresa in nessuna delle forme in cui è stata declinata durante il Novecento che abbiamo alle nostre spalle? Credo si possa dare una risposta negativa a entrambe le domande, purché naturalmente ci s’intenda sul significato da dare all’idea di rivoluzione. Diversi studiosi hanno posto in rilievo che la fine dell’“utopia capovolta” non ha trascinato con sé nella rovina la “speranza della rivoluzione”.
 
Ritengo che un discorso sulla rivoluzione oggi deve prescindere totalmente dal modello bolscevico. In questo senso può essere di un certo interesse tornare a Gobetti, un autore che si pone il problema della rivoluzione dal punto di vista del liberale e non del socialista, men che meno del comunista, come in tempi lontani e non sospetti ha riconosciuto il più grande interprete della rivoluzione comunista in Italia, Antonio Gramsci. Varrebbe la pena rileggere Alcuni temi della quistione meridionale. Gramsci apprezzava l’assunzione da parte di Gobetti del movimento operaio come il «protagonista moderno della storia italiana e quindi della quistione meridionale» ma era perfettamente consapevole che egli «non era comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato».[7]
 
Se si vogliono trovare chiavi di lettura feconde nella storia del Novecento, bisogna risalire certo a quegli anni, ma rivisitando teorie e ideologie della rivoluzione, distinte se non opposte alla prospettiva social-comunista, come il socialismo liberale di Carlo Rosselli o, guardando ancora più indietro, la rivoluzione meridionale di Guido Dorso o la rivoluzione liberale di Gobetti.
 
A mio avviso, la proposta gobettiana va collocata nella dialettica tra rivoluzione e autobiografia della nazione che è stata al centro di alcune rivisitazioni antologiche del pensiero di Piero Gobetti.[8] Si tratta di una dialettica irrisolta nel pensiero di Gobetti e nella storia d’Italia. Può essere utile domandarsi: “Il fascismo gobettianamente è una rivoluzione?”.
 
La risposta di Gobetti è inequivocabile: la “rivoluzione” fascista non è stata una rivoluzione, ma un colpo di Stato. Negli anni di Gobetti si passò tragicamente, nel volgere di poco tempo, dal socialismo possibile al fascismo reale. Ebbene, per il giovane teorico di una immaginosa rivoluzione liberale, la marcia su Roma non è stata il punto d’arrivo di un processo rivoluzionario come, invece, avrebbero potuto essere i moti operai del ’19-’20. Infatti, nella rivoluzione operaia egli vede la rivoluzione italiana che avrebbe potuto portare a compimento il processo lasciato interrotto dal Risorgimento. Schematicamente, si può dire che, mentre l’occupazione delle fabbriche degli anni ’19-’20 è stata una rivoluzione non riuscita, al contrario il fascismo è stata una controrivoluzione riuscita.
 
Gobetti accoglie la lettura di quegli anni come uno scontro tra reazione e rivoluzione, riformulandolo nei termini di un conflitto tra rivoluzione e autobiografia della nazione. Nel suo articolo giustamente più celebre, Elogio della ghigliottina, Gobetti introduce l’interpretazione del fascismo come “autobiografia della nazione”, distinguendo tra Mussolini e il fascismo. Nel primo non vede «nulla di nuovo»: il futuro duce gli appare come un nuovo Giolitti. Il secondo «ci ha attestato inesorabilmente l’impudenza della nostra impotenza»: gli italiani sono «un popolo di dannunziani» al quale non si può chiedere spirito di sacrificio. Mentre Mussolini può essere considerato «un fatto d’ordinaria amministrazione», per contro «il fascismo è stato qualcosa di più; è stato l’autobiografia della nazione».[9]
 
Agli occhi di Gobetti la storia italiana appare come una lunga storia di servi, di cui il fascismo è l’ultima e l’estrema conseguenza. In una forma degenerativa il fascismo continua la politica diseducatrice delle vecchie classi dirigenti e perpetua i vizi atavici e più diffusi della mentalità italiana: la retorica, la cortigianeria, la demagogia, il trasformismo, la fiducia, l’ottimismo. La lotta al fascismo prima ancora che politica è di natura morale, ha un valore religioso, è un problema di stile, è una questione di istinto: «C’è un solo valore incrollabile al mondo: l’intransigenza, e noi ne saremmo per un certo senso i disperati sacerdoti».[10]
 
La base sociale dell’autobiografia della nazione sta nel «calderone piccolo-borghese» che ne incarna perfettamente «i vizi inguaribili». Le caratteristiche costanti della piccola borghesia (oggi si direbbe della maggioranza silenziosa) sono «l’apoliticità, l’immaturità politica, l’esaltazione cortigiana, il parassitismo» a cui Gobetti oppone «la lotta contro l’unanimità, la resistenza inesorabile, l’intransigenza di fronte a nemici ed amici».[11]
 
Invece l’ideologia dell’autobiografia della nazione è la normalizzazione, che è «un elemento psicologico e ideale necessario come la violenza». Normalizzare significa conciliare gli opposti, addomesticare «le minoranze battagliere» e «i movimenti libertari sorti dal basso», lusingare le classi medie e le «masse quietiste», contrastare «coloro che parlano di una continuazione della lotta», favorire il «formarsi di una vera e propria voluttà del servire».[12] Reagendo alla normalizzazione, Gobetti afferma che «l’opposizione può servire il Paese soltanto rifiutandosi di far la pace col vincitore».[13]
 
L’invito a leggere – o rileggere – Gobetti poggia sulla convinzione che le sue parole possano giovare a comprendere i corsi e i ricorsi della storia d’Italia dall’avvento del fascismo a oggi. Sinteticamente, sulla scorta di Gobetti, il Novecento italiano e le sue propaggini nel XXI secolo possono essere inscritti e risolti nell’eterna dialettica tra una rivoluzione italiana non riuscita, mai compiuta più che incompiuta, e il periodico, prepotente e prorompente, ritorno dell’autobiografia della nazione, che è dura a morire, cova sotto la cenere, riemerge periodicamente in forme nuove, inedite e impreviste.
 
Gobetti ci ha insegnato una volta per tutte che la cultura politica «si può svolgere solo attraverso la lotta politica e la lotta politica nel mondo moderno ha la sua premessa necessaria nella libertà».[14] Se si adotta in senso ampio il termine rivoluzione, si può dire che il fascismo, ogni fascismo, è una rivoluzione contro la cultura, mentre la rivoluzione liberale vagheggiata da Gobetti è una rivoluzione per la cultura. In questo senso, la rivoluzione liberale è l’esatta antitesi della cosiddetta «rivoluzione fascista». La rivoluzione liberale è una rivoluzione contro l’autobiografia della nazione.
 
Il metodo di Gobetti – educare gli educatori – può essere ripreso e rivissuto anzitutto sul piano personale per quella sua volontà di stare dentro al cambiamento, sorridendone con serietà. Un cambiamento che sia un rinnovamento interiore e non un mero rimescolamento delle carte. Essere gobettiani significa in ogni comportamento agire come se si indossasse la divisa. Per una questione di coscienza, forse.
 
 
Note:
[1] Piero Gobetti, La nostra fede, in “Energie Nove”, serie II, n.1, 5 maggio 1919, p.1-8; ora in Id., Scritti politici (1960), a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1997, p. 626, d’ora in poi: SP.
[2] Pietro Polito, L’utopia della rivoluzione. La rivoluzione liberale di Piero Gobetti, Postfazione di Paolo Di Paolo, Fano (PU), Aras Edizioni, 2019. 
[3] Aldo Grasso, Salvini studia da liberale: ed è subito Pera, “Corriere della Sera”, a. 145, n. 242, domenica 11 ottobre 2020, p. 1. La “svolta liberale” di Matteo Salvini è annunciata in una intervista rilasciata dal leader a Cesare Zapperi, “Apriamoci fuori dalla politica. E voglio la rivoluzione liberale”, “Corriere della Sera”, giovedì 8 ottobre 2020, p. 13: «Condivido l’idea e la necessità di una rivoluzione liberale. Abbiamo bisogno di liberare energie, di sfruttare le potenzialità degli italiani. E non pretendo di essere da solo in questo impegno». Secondo i rivoluzionari liberali dell’ultima ora, Forza Italia ha perso la “forza propulsiva” (così la deputata forzista Laura Ravetto, giustificando il cambio di casacca) e il capo della Lega incarna la rivoluzione liberale. Condivido lo scetticismo espresso da Gianfranco Pasquino in Da Berlusconi a Salvini: i rivoluzionari liberali sono degli abusivi, “Domani”, 17 ottobre 2020, p. 10.
[4] La Rivoluzione Liberale (1922-1925), ristampa anastatica rilegata, con prefazione di Norberto Bobbio, Parma, Guanda, 1967; nuova ristampa anastatica in cofanetto, Torino, Einaudi, 2001. La rivista, d’ora in avanti citata con l’abbreviazione RL, è consultabile online sul sito del Centro studi Piero Gobetti.
[5] Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna, Cappelli, 1924. L’edizione a cura di Ersilia Alessandrone Perona, con un Profilo di Piero Gobetti di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1983 è stata poi ripresa nell’edizione a cura della stessa Ersilia Alessandrone Perona, con un saggio di Paolo Flores d’Arcais, Torino, Einaudi, 1995 (da cui cito, d’ora in poi, riferendomi a essa con l’abbreviazione RLS). Segnalo anche l’edizione francese, con una introduzione di Marco Gervasoni e traduzione di Marilène Raïola, Paris, Éditions Allia, 1999.
[6] Piero Gobetti, Guerra agli apolitici, “La Rivoluzione Liberale”, III, 10 (4 marzo 1924), p. 40; ora in Piero Gobetti, Scritti politici, p. 626, d’ora in poi: SP.
[7] Per Gramsci, Gobetti è stato «un formidabile organizzatore di cultura» e l’idea che egli fosse «un comunista camuffato» non era altro che una insulsa diceria. Cito da Antonio Gramsci, La questione meridionale e altri scritti, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 157-158.
[8] Piero Gobetti, La rivoluzione italiana (1918-1925), a cura di Pietro Polito, Roma, Edizioni dell’Asino, 2013, e Id., L’autobiografia della nazione, a cura di Cesare Panizza, Fano (PU), Aras Edizioni, 2016.
[9] Piero Gobetti, Elogio della ghigliottina, “La Rivoluzione Liberale”, I, 34-35 (23 novembre 1922), p. 130; SP, p. 433.
[10] P. Gobetti, Elogio della ghigliottina, cit., p. 130; SP, p. 432.
[11] Piero Gobetti, Uomini e idee [IX]. Il calderone piccolo borghese, “La Rivoluzione Liberale”, III, 9 (26 febbraio 1924), p. 34; SP, p. 610-611.
[12] Piero Gobetti, Addomesticati e ribelliLa normalizzazione, “La Rivoluzione Liberale”, III, 19 (6 maggio 1924), p. 73; SP, p. 660.
[13] P. Gobetti, Addomesticati e ribelliLa normalizzazione, cit., p. 73; SP, p. 661.
[14] Piero Gobetti, La nostra cultura politica 2, “La rivoluzione liberale”, II, 6 (15 marzo 1923), p. 26; SP, p. 476. Compreso insieme a La nostra cultura politica 1, “La rivoluzione liberale, II, 5 (8 marzo 1923), p. 17-18, in Piero Gobetti, Dal bolscevismo al fascismo. Note di cultura politica, Torino, Piero Gobetti Editore – Via XX Settembre, 1923, p. 36 (Collezione “Polemiche”, n. 3); nuova edizione: Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015, p. 37-54.

Centro studi Piero Gobetti

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