“L’amico Norberto Bobbio si è fatto tutto il percorso con un cappello di giornale alla muratora foggiatogli da un partecipante alla marcia meglio di quanto sapessi fare io”[1]. Con queste parole, Aldo Capitini descrive Bobbio alla Marcia della pace Perugia-Assisi, il 24 settembre 1961, dallo stesso Capitini pensata, promossa, organizzata sia come “l’espressione di una esigenza generale” sia come “un promovimento vigoroso di iniziative per la pace”[2]. Come ha detto Bobbio, la Marcia del ’61 fuse mirabilmente le cose che più gli erano care: la festa, la coralità, la vicinanza, l’impegno nonviolento attraverso “un appello alle forze morali”[3].
Quando si ritrovano lungo il cammino da Perugia ad Assisi, Bobbio e Capitini sono all’inizio di una stagione operosa e feconda. L’operosità di Bobbio è quella dell’uomo di cultura convinto che il dovere del chierico sia uscire dalla torre d’avorio, l’operosità di Capitini è quella del persuaso della buona causa. Infatti, l’attivismo dei due amici non è paragonabile. Se Bobbio – intellettuale mediatore – mira a comprendere le ragioni delle parti nella mischia prima ancora di schierarsi con l’una o l’altra parte, Capitini – intellettuale persuaso – “non fu al di sopra della mischia, ma dentro, fino a consumarvisi”[4].
Per capire il loro atteggiamento convergente ma distinto verso la politica, si noti che nello stesso periodo l’uno, come si è già detto, organizza una marcia per la pace e fonda un movimento ispirato alla nonviolenza, l’altro, insieme a Ada e Paolo Gobetti, contribuisce alla costituzione di un centro studi intitolato a Piero Gobetti, al quale Capitini dà un’adesione non solo formale in quanto si sente più vicino alla “rivoluzione liberale” di Gobetti che al socialismo liberale di Carlo Rosselli e al liberalsocialismo di Guido Calogero.
La vita mi ha dato la possibilità di conoscere da vicino Norberto Bobbio. Attraverso le conversazioni pubbliche e private con Bobbio, ho potuto conoscere meglio, più a fondo di quanto non consenta la lettura delle sue opere, Aldo Capitini, “un uomo – è stato scritto – assolutamente in buona fede, perfettamente sterile dai bacilli italiani della malizia, della furberia e dell’interesse”, uno di quegli uomini che “indipendentemente dalle loro idee e dall’oggetto del loro insegnamento” hanno molto da insegnare “per la tempra morale che li sostiene e la fede che da essi promana”[5].
In una delle sue ultime lettere a Capitini [19 settembre 1966] Bobbio scrive che la differenza tra loro due stava nell’essere lui un persuaso, egli un perplesso. Ebbene, la lezione del persuaso Capitini è stata fonte di ispirazione perenne per il perplesso Bobbio, perfettamente consapevole che “i perplessi restano perplessi. Ma è pur vero che la storia di errori e di follie continua a svolgersi sotto i loro occhi di spettatori impotenti”[6]. Fino alla fine Bobbio ha pensato di tornare sull’amico per affrontare uno dei temi a lui più cari. In più di una conversazione capitiniana avuta con lui, quando si avvicinava ai novant’anni, Bobbio ha manifestato l’intenzione di occuparsi dell’omnicrazia e più di una volta mi sono permesso di incoraggiarlo. Il saggio sul “potere di tutti” avrebbe dovuto e potuto essere l’ultimo dei suoi scritti dedicati all’amico.
Di tali scritti, in questa occasione, a sessant’anni dalla prima edizione, ricordo e illustro i discorsi preparati per la Marcia della Pace Perugia-Assisi, che sono stati pubblicati nella capitiniana, che ho curato con Pina Impagliazzo per la “Nuova Antologia”: Non uccidere, pronunciato a conclusione del dibattito sull’omonimo film di Claude Autant-Lara a Torino il 4 dicembre 1961; Alla Marcia della pace, destinato a concludere la Marcia della pace Perugia-Assisi 27 settembre 1981; Tutti a casa anzi alla Marcia, letto dagli organizzatori a conclusione della Marcia della pace Perugia-Assisi 24 settembre 1995, preceduti dal resoconto della prima Marcia della pace Perugia-Assisi del 1961. 1961, 1981, 1995: i tre discorsi riflettono lo svolgersi della riflessione bobbiana sul problema della guerra e le vie della pace in tre momenti decisivi della storia dei rapporti tra pace e guerra nel Novecento.
Con l’adesione e la partecipazione alla prima Marcia della pace Perugia-Assisi, 24 settembre 1961, che nel resoconto viene presentata come “un invito a prender coscienza della gravità e novità della situazione” e insieme “un appello alle forze morali”, Bobbio ha intrapreso anche attraverso l’impegno pubblico un percorso che a poco a poco lo porterà a diventare uno dei massimi filosofi della pace del Novecento come chiaramente traspare dalla lettura del suo libro Il problema della guerra e le vie della pace (1979), che può essere a buon diritto inserito tra le grandi opere sulla pace e la guerra, accanto, per esempio a La bomba atomica e il destino degli uomini di Karl Jaspers (Il Saggiatore, Milano 1960) e Essere e non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki di Gunter Anders (Einaudi, Torino, 1961).
Nel discorso del '61 Non uccidere compare in sintesi la critica delle giustificazioni della guerra alla luce della svolta atomica che Bobbio sviluppa nel libro Il problema della guerra e le vie della pace (1979). Nel discorso di cui ci stiamo occupando egli si sofferma sulle “principali ideologie della guerra”: la teoria della guerra giusta, la guerra come male minore, la guerra come male necessario, la guerra come un fatto naturale inevitabile.
Dal punto di vista storico il discorso ben si colloca nel dibattito italiano di quegli anni sull’obiezione di coscienza, animato dallo stesso Capitini e che andava riprendendo maggiore vigore anche grazie al radicale mutamento di opinione della Chiesa cattolica che, da un atteggiamento iniziale di condanna assoluta, stava passando a una riconsiderazione dell’obiezione di coscienza al servizio militare come un valore. Forse con questa ragione storica si può spiegare che nel discorso del '61 Bobbio ponga l’accento sull’obiezione di coscienza intesa come “quella situazione in cui la nostra coscienza ci vieta col suo imperativo di compiere un’ingiustizia”. In particolare poi – afferma Bobbio – “l’obiezione di coscienza [al servizio militare] significa rifiuto di portare armi”.
Dal punto di vista invece dell’evoluzione del “pacifismo bobbiano”, occorre porre in rilievo che successivamente Bobbio lascerà cadere il tema dell’obiezione di coscienza. Peraltro egli ritiene che l’obiezione di coscienza in quanto rifiuto assoluto di portare armi sia giustificata e giustificabile di fronte alla guerra nucleare, ma non di fronte a ogni guerra. Quanto poi al problema dell’inserimento dell’obiezione di coscienza nell’ordinamento giuridico, Bobbio sostiene che possano essere accolti dal legislatore esclusivamente motivi religiosi e morali. (Diversamente da Capitini che giustifica l’obiezione per motivi di coscienza tout curt e dalla letteratura radicale sull’obiezione di coscienza che contempla anche i motivi politici. Indirizzo che è stato accolto dal legislatore italiano.)
Non a caso il tema capitiniano che a Bobbio sta più a cuore non è quello dell’obiezione di coscienza ma è quello della nonviolenza. Nella prefazione del settembre 1979 al volume Il problema della Guerra e le vie della pace, Bobbio scrive che è “oramai venuto il momento di rimettere in onore il tema della nonviolenza, di cominciare a considerarlo il tema fondamentale del nostro tempo”. Inoltre ricorda che questo tema – l’ideale della nonviolenza – era stato sin dagli anni della resistenza al fascismo il nucleo centrale del messaggio di Capitini.
La prefazione del '79 è il testo in cui più chiaramente emerge il punto di vista di Bobbio: “Non mi considero un nonviolento militante, ma ho acquistato la certezza assoluta che o gli uomini riusciranno a risolvere i loro conflitti senza ricorrere alla violenza, in particolare a quella violenza collettiva e organizzata che è la guerra, sia esterna sia interna, o la violenza li cancellerà dalla faccia della terra. L’importanza dei movimenti che predicano la nonviolenza collettiva e attiva deriva dalla accresciuta consapevolezza che via via che la violenza diventa più totale diventa anche più inefficace. Certamente l’uomo non può rinunciare a combattere contro l’oppressione, a lottare per la libertà, per la giustizia, per l’indipendenza. Ma è possibile, e sarà anche producente e concludente, combattere con altri mezzi che non siano quelli tradizionali della violenza individuale e collettiva?”
Il maggiore interesse per il tema della nonviolenza si evince dal secondo discorso Alla marcia della pace, che riflette una situazione storica radicalmente mutata. Gli anni del disgelo, del dialogo tra comunisti e cattolici a livello nazionale ma anche sul piano internazionale, così come gli anni della distensione sono ormai alle spalle. La contesa tra i due mondi, est e ovest, socialismo e capitalismo, il cosiddetto mondo libero e il cosiddetto mondo dell’uguaglianza vive una nuova stagione di contrapposizione totale. I rapporti tra i due grandi avversari si basano sull’equilibrio del terrore che, argomenta Bobbio, è un equilibrio instabile, un equilibrio che si trasforma continuamente in squilibrio e che si riequilibra sempre con l’aumento e non con la diminuzione della forza militare reciproca.
Il discorso Alla Marcia della pace e la riflessione di Bobbio sull’equilibrio del terrore risalgono alla prima metà degli anni '80 quando le sorti del pianeta sembravano, in effetti erano, nelle mani di (sono parole di Bobbio) “una sparuta minoranza di uomini, posseduti e accecati dal demone del potere (e della ricchezza)”. Bobbio chiama gli allora capi del mondo “irresponsabili” e “mentitori”. Se le cose sono andate diversamente, sembra dire Bobbio nella parte conclusiva del discorso Alla Marcia della pace, è anche perché gli uomini di buona volontà hanno saputo ascoltare la voce di Capitini, opponendo al metodo della violenza che insanguina il mondo, il metodo della nonviolenza, “perché esso – come diceva il filosofo italiano della nonviolenza – non bagna le strade e le case di sangue, ma unisce gruppi e moltitudini di persone nelle loro campagne rinnovatrici”.
Quando scrive il discorso Tutti a casa, anzi alla Marcia, poi pronunciato da Luciano Capuccelli, che è stato per alcuni anni Presidente della Fondazione Aldo Capitini, a conclusione della Marcia della pace Perugia-Assisi nel settembre 1995, infuria la guerra nell’Ex-Jugoslavia. La scena mondiale è radicalmente mutata. Il mondo non è più diviso in due blocchi contrapposti e dal tempo della guerra fredda, una guerra parimenti crudele, e del bipolarismo – capitalismo contro comunismo, comunismo contro capitalismo –, dopo la prima speranza subitaneamente rivelatasi un’illusione di una possibile riforma in senso democratico del sistema internazionale, si è passati al tempo delle cosiddette “guerre umanitarie” combattute in nome del diritto (Guerra del Golfo, Kosovo, Afghanistan). L’atteggiamento fortemente critico nei confronti del pacifismo che aveva caratterizzato la posizione di Bobbio sulla Guerra del Golfo, schieratosi senza se e senza ma a favore dell’intervento, sembra stemperarsi in questo discorso del '95 in cui egli lamenta la scarsa attenzione riservata ai movimenti pacifistici che manifestano, inascoltati, contro il ritorno della guerra nel cuore dell’Europa.
È un Bobbio scorato quello che presenta una virtuosa manifestazione di uomini di pace e la più crudele azione di guerra come due eventi che procedono parallelamente senza mai incontrarsi. Gli uomini hanno sempre invocato la pace ma hanno sempre continuato a farsi guerra illudendosi che quella che stavano combattendo sarebbe stata l’ultima guerra. I temi del pacifismo, fa notare Bobbio, sono quanto mai attuali. Quale pacifismo? Certo non un pacifismo generico delle tante manifestazioni che disapprovano le guerre degli avversari ma non quelle dei propri amici. Qui egli insiste sui limiti del pacifismo etico-religioso, che s’ispira all’etica delle buone intenzioni, atteggiamento nobile moralmente, ma poco efficace politicamente.
Da notare in questo discorso è l’uso per la prima e forse unica volta dell’espressione “pacifismo responsabile”, con cui denota il “pacifismo istituzionale”.
La novità teorica qui enunciata anche se non sviluppata è che del pacifismo responsabile e/o istituzionale si possono distinguere due versioni: “il pacifismo giuridico di cui Bobbio è uno dei più autorevoli sostenitori (insieme, per esempio, al grande filosofo del diritto Hans Kelsen) e la nonviolenza, di cui in Italia il più autorevole rappresentante è stato ed è Aldo Capitini.
La prima è una versione più realistica che si fonda sulla distinzione “tra la violenza diffusa, e come tale incontrollabile, e la violenza concentrata e controllata, quale quella di un organismo al di sopra delle parti che dell’uso dei mezzi violenti abbia, esso solo l’esclusività”. Questa forma di pacifismo responsabile mira, se non alla pace integrale, alla riduzione della violenza nel mondo e nella storia, concentrandola in un’organizzazione internazionale, di cui le Nazioni Unite sono solo una pallida copia, il cosiddetto Terzo al quale gli Stati riconoscono e affidano il compito di dirimere le controversie internazionali anche, in ultima istanza, attraverso il ricorso alla forza.
La seconda è una versione più utopistica che si richiama alla distinzione gandhiana tra non violenza passiva e nonviolenza attiva. Forse è questo il punto di maggiore avvicinamento di Bobbio alla nonviolenza. Non cadono il pessimismo, il realismo, lo scetticismo tipicamente suoi che lo portano e lo hanno portato, per esempio in occasione della Guerra del Golfo, a non vedere di fronte al dispiegarsi cieco della violenza cieca altra alternativa che una violenza “razionale” altrettanto forte da prevenirla, contenerla, imbrigliarla fino a farla cessare. Tuttavia, in occasione della Marcia della pace del '95 egli significativamente inserisce la nonviolenza attiva tra le vie “responsabili” della pace per la possibilità e la capacità che essa ha di “predisporre una difesa, altrettanto efficace, fondata sull’uso di mezzi non violenti, come la resistenza passiva, la noncollaborazione, il boicottaggio e così via”. Molto probabilmente Capitini avrebbe salutato positivamente questa innovazione che l’amico Bobbio introduce nel giudizio sulla nonviolenza, ma non ne avrebbe fatta propria la conclusione pessimistica: “Purtroppo la guerra in corso mostra l’insufficienza anche del pacifismo istituzionale in entrambe le versioni”.
Concludo. Se dovessi dire qual è la verità che ho imparato da due maestri, usando le parole di uno scrittore spagnolo contemporaneo, scomparso di recente, che è tra i miei preferiti, direi che questa verità è “l’inesplicabile terrore del vuoto lasciato da una vita recisa con violenza”. Capitini è stato un uomo fiducioso, ingenuo ma non sprovveduto, Bobbio un uomo malinconico, pessimista ma non triste né rassegnato. L’uno, con una operosa “fiducia illuminata”, l’altro, con una operosa malinconia razionale, hanno vissuto come se il male massimo – la violenza – potesse essere contenuto se non estirpato dalla natura e dalla storia. L’auspicio è che il loro esempio sia un contributo alla conoscenza dei problemi della pace e possa diventare uno stimolo al lavoro comune sulla strada del bene.
Il perplesso accoglie l’invito del persuaso a continuare a “marciare” per la pace: “Ho partecipato anch’io a marce per la pace negli anni della guerra fredda. Se le gambe mi reggessero, lo farei ancora. Lo farei ancora perché? Ma perché so che se anche tutti i contadini del mondo si unissero per far piovere, la pioggia non verrebbe. Ma so anche che se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una manifestazione della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire dalla faccia della Terra”.
Note:
[1] A. Capitini (a cura di), In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi, Einaudi, Torino 1962, p. 31. Il brano si trova nell’introduzione “Ragioni e organizzazione della Marcia”, pp. 9-39, che l’amico Mario Martini ha opportunamente riproposto nell’antologia degli scritti, Le ragioni della nonviolenza, ETS, Pisa 2004, seconda ed. 2007, pp. 146-175.
[2] A. Capitini, Premessa, in Id. (a cura di), In cammino per la pace, cit., p. 5.
[3] N. Bobbio, L’antitesi radicale del fascismo, in Il messaggio di Aldo Capitini, Antologia dagli scritti, a cura di G. Cacioppo, Lacaita, Manduria 1977, p. 504.
[4] N. Bobbio, Religione e politica in Aldo Capitini, in Id. Maestri e compagni, Passigli, Firenze 1984, p. 292.
[5] Traggo queste parole dalla lettera del 25 maggio 1964 che Edoardo Ruffini scrive all’allora ministro Giuseppe Ermini, per sostenere la chiamata di Capitini presso l’Università degli studi della sua città, l’amata Perugia. Questo stupendo ritratto viene da un uomo di studi che non è “un amico personale”, non ne condivide l’ispirazione generale e considera “certi suoi atteggiamenti remoti dalla mia natura: non sono – afferma Ruffini – il tipo da marciare per la pace e per altro, e fare eventualmente lo sciopero della fame”. Cfr. AAC, Busta ..., Foglio ...
[6] N.Bobbio, Religione e politica in Aldo Capitini, cit., p. 294.