Farsi un'anima dantesca: il pensiero di Gobetti su Dante

di Emanuela Bufacchi

In prossimità della conclusione dell’anno dantesco, a segnare ­ nell’ampio e sfuggente bilancio di una pluralità chiaroscurale di iniziative ­ una direzione percorribile oltre le celebrazioni, tornano esemplari le riflessioni espresse da Piero Gobetti sull’opera dell’Alighieri, in quei tempi sospesi sull’orlo di un baratro che furono impegnati nel Seicentenario della morte del Poeta.

È un fatto che il 1921 ­ data nevralgica nella storia del Paese e dello stato liberale ormai compromesso dall’acuirsi delle tensioni politiche e sociali che avrebbero accompagnato la nascita del partito comunista nel gennaio e di quello nazionale fascista nel novembre ­ appaia decisivo anche nella definizione del progetto culturale e politico elaborato dal giovane intellettuale. Fin dal gennaio si annuncia l’uscita della «Rivoluzione liberale», progettata col trasparente proposito di occupare lo spazio politico dell’«Unità», cessata nel dicembre dell’anno precedente. D’altra parte la rivista, che comincerà ad essere pubblicata solo a partire dal 1922, si preannunciava come strumento chiave di un progetto più ampio in cui il definirsi della necessità di una dimensione politica succeduta all’esperienza dell’occupazione delle fabbriche coincide con la precisa volontà di mettere in piedi un sistema organico di rieducazione culturale ed etica senza la quale non sembrava in alcun modo possibile intraprendere qualsiasi forma di azione.

Per Piero, che fin dal 1919 aveva iniziato a lavorare alla scuola di propaganda politica per l’«Unità»[1] con l’intento di costituire un nucleo organico di educazione, si trattava di mettere a punto il programma complessivo della Casa editrice «Energie Nove»,  un sistema editoriale articolato in cui confluiscono un insieme di iniziative unitariamente intese: il progetto di una nuova rivista a risoluzione dell’antinomia tra riformismo democratico e accettazione dei processi rivoluzionari quale sarà «La Rivoluzione Liberale»; un quindicinale di letteratura («Il Baretti»), finalizzato ad affrontare i problemi e le espressioni dell’arte e dei movimenti contemporanei, ma pure a far conoscere in traduzione autori ignorati in Italia; e infine una serie di collezioni destinate ad accogliere volumi di storia, politica, letteratura e polemica.

Insomma un vero e proprio piano d’intervento ad ampio raggio finalizzato a rieducare lo spirito e il pensiero critico corrente[2].

In questo disegno s’inserisce la decisione di appropriarsi della «Società di cultura», di cui proprio alla fine del 1920 verrà rovesciato il consiglio direttivo e inaugurato un «nuovo indirizzo»[3]. Benedetto Croce, che aveva assunto l’incarico di Ministro della pubblica Istruzione dal giugno, sarà chiamato ad avviare il ciclo delle conferenze con una lettura su Heine e Ibsen che si tenne il 26 dicembre, nel pieno delle polemiche suscitate dalla ridefinizione dei finanziamenti  previsti per le celebrazioni dantesche; ma pure dalla, non meno avversata, pubblicazione del volume dedicato a La poesia di Dante (di cui Gobetti possedeva copia fin dall’11 dicembre), destinato a segnare in profondità la direzione degli studi danteschi[4].

La decisione di coinvolgere Croce riflette una precisa volontà di adesione e sostegno del filosofo, al cui pensiero, Gobetti si sarebbe ispirato anche per ricordare il Poeta ai commilitoni della caserma La Marmora, dove dal 1° agosto del 1921 assolveva agli obblighi di leva[5], non senza la precisa volontà di organizzare un centro morale di rieducazione nell’Esercito.

 La commemorazione, che resta anche l’unico vero e proprio intervento dantesco dell’intellettuale, si configura come una precisa presa di distanze dalle celebrazioni torinesi in chiave nazionalista che avevano coinvolto le due massime istituzioni culturali della città quali furono la Regia Università e l’Accademia delle scienze. Tra le iniziative, spicca il discorso dal titolo Il Dante nostro pronunciato, nell’Aula Magna dell’Università il 21 giugno 1921, dall’allora direttore del «Giornale storico» professore ordinario di Letteratura italiana Vittorio Cian. Sulle orme del cultore del nazionalismo dantesco, «il mio caro e valente» Francesco Ercole, e in particolare del suo studio su L’unità politica della nazione italiana e l’impero nel pensiero di Dante, Cian aveva aperto la sua prolusione in nome del «fiorentino sorto più che mai italiano, che dell’Impero addita il giardino, l’Italia, e, sede sacra delle due autorità, Roma. Tutto questo in una luce intensa di romanità che diventa in lui per la prima volta italianità nazionale, visione profetica d’una Nazione ch’egli fissa nei suoi “termini” geografici, nella sua lingua, nelle sue tradizioni, nell’anima sua, che suggella e consacra della sua poesia; d’una Nazione che afferma il proprio diritto e il dovere di non essere serva, ma di ridiventare libera, d’una Nazione di cui proclama solennemente il primato, come per una nobiltà acquisita nei secoli e in parte rinnovata con opere nuove, fra le altre nazioni»[6]. Concludeva poi l’intervento nel ricordo della «gioventù eroica d’Italia» capace di un nuovo Risorgimento.

A quell’idea, Gobetti contrapponeva la direzione segnata da Croce fin dal discorso con cui nelle funzioni di Ministro aveva inaugurato, a Ravenna il 14 settembre 1920, l’anno dantesco.

Di quel discorso riprendeva la conclusione in cui il filosofo aveva dichiarato: «che il più alto e vero modo di onorare Dante è anche il più semplice: leggere e rileggerlo, cantarlo e ricantarlo, tra noi e noi, per la nostra letizia, per il nostro spirituale elevamento, per quell’interiore educazione che ci tocca fare e rifare e restaurare ogni giorno, se vogliamo “seguir virtute e conoscenza”, se vogliamo vivere non da bruti ma da uomini»[7]. Sono parole che ritorneranno nell’esordio del discorso gobettiano a segnare una inequivocabile corrispondenza di intenti fortemente polemici nei confronti di una vociante acclamazione e distorsione dell’opera del Poeta:

Non con orazioni pretenziose, né con smaglianti commemorazioni si ricordano i poeti nei giorni anniversari. Poiché la poesia non conosce date ma vive nello spirito solitario di chi la sente, e non si piega ad ammirazioni collettive, paga di regnare sovrana dove c’è intimità e calore d’ispirazione. Si commemora Dante poeta soltanto leggendolo, facendolo sempre più nostro in un fervore di comprensione attraverso il quale la potenza sua stessa di poeta si rinnovi[8].

D’altra parte non è la poesia pura ad attrarre Gobetti quanto la possibilità di assumere il pensiero del poeta, ancora una volta in opposizione alla linea critica dell’accademia torinese, a fondamento di una lunga tradizione nazionale di realismo politico, di autonomia della sfera civile da quella religiosa e di culto della libertà individuale, rinvenendo in esso il lontano, originario fondamento del pensiero liberale.

A differenza di Gramsci che aveva un nativo gusto della poesia ed una coscienza del problema estetico, di derivazione crociana, che lo portava a distinguere fra quel che è poesia e quel che è letteratura, Gobetti, che in questo procedeva distintamente da Croce, del quale non condivide il principio dell’autonomia dell’arte, il carattere lirico e metastorico di essa al di là dell’orizzonte ideologico nel quale si è formata[9], intendeva piuttosto trasferire ogni problema estetico in problema di cultura e di civiltà, infondendo nella lettura anche del testo letterario un sentimento di responsabilità individuale, anzi una fiducia nel fare individuale che restava di per sé stessa viva e operante; ed è in virtù proprio di questo sentimento che i suoi scritti, sono tuttora in grado di sollecitare un esortazione morale e in certo qual modo di indicare una direzione.

Anche nel caso dell’Alighieri, è in questa prospettiva che deve intendersi il senso più valido e duraturo dell’interpretazione gobettiana. Nell’articolo programmatico Per il 1920, uscito su «Energie Nove» il 20 dicembre 1919, Dante veniva indicato come il primo di una successione di poeti da assumere a fondamento di una ideale tradizione letteraria, e pertanto da proporre ai giovani secondo un preciso metodo didattico che fosse in grado di operare una piccola rivoluzione in modo «che queste letture diventino il mio spirito; che io ricostruisca in esse la formazione dell’uomo, che, didatticamente, ne faccia comprendere il valore di liberazione da ogni esteriorità, in modo che lo scolaro viva in Vico quegli che s’è tormentato al suo stesso problema e che è giunto, attraverso il tormento, alla soluzione; e in Ariosto quegli che ha cantato i sogni e interpretato i suoi amori, e nello sdegno di Machiavelli riconosca il suo sdegno e nella Beatrice di Dante la sua Beatrice»[10].   

 La lettura di grandi poeti veniva quindi proposta come strumento di auto-riconoscimento e di elevamento spirituale. Una strada che egli avrebbe compiuto personalmente stabilendo una sorta di fratellanza elettiva con il Poeta nel quale ritroverà l’educatore morale della forza catartica dell’amore.

Sarà così la lettura libera e condivisa della Vita nuova e della Commedia, intrapresa a distanza con l’amata Ada Prospero trasfigurata in Beatrice, a indirizzare la formazione spirituale di Gobetti, aiutandolo a far collimare le proprie diverse esigenze, aspirazioni e desideri con il modello dantesco continuamente rivisitato per meglio corrispondervi, in un percorso di auto-educazione che lo porterà, seconda sua ammissione, al superamento dell’egoismo. Lo studio, l’impegno sociale, le scelte politiche verranno riassorbite e moralizzate dall’esperienza amorosa che, ricomposta idealmente, diviene il presupposto indispensabile per compiere quella «redenzione dall’egoismo» ritenuta necessaria per accedere alla formazione civile. Sullo sfondo restava l’esortazione crociana a praticare una lettura libera e spontanea della Commedia.

 

Note:

[1] Lettera di Piero Gobetti a Santino Caramella, datata Torino, 18 II [1920], in P. Gobetti, Carteggio 1918-1922, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 2003, p. 99.

[2]  E. Bufacchi, «Il progresso è nell’unità». Piero Gobetti e l’organizzazione della cultura, in Atti del quarto Colloquio internazionale di Letteratura italiana Università degli Studi Suor Orsola Benincasa (Napoli, 6-8 ottobre 2010), a cura di S. Zoppi Garampi, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 233-251.

[3] Lettera di P. Gobetti a G. Papini, [Torino, 12 dicembre 1920] in P. Gobetti, Carteggio 1918-1922, a cura di E. Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 2003, p. 182.

[4] Si veda per entrambi gli aspetti il volume Pro e contro Dante, a cura di E. Giammattei, con saggi di Ead., E. Bufacchi e N. Ruggiero, Roma, Treccani, 2021. G. Bergami, Gozzano e la "matta brigata" nel serraglio della Società di cultura, in: Guido Gozzano: i giorni, le opere: atti del convegno nazionale di studi, Torino, 26-28 ottobre 1983, Firenze, Olschki, 1985, p. 239-254.

[5] La commemorazione Dante primo uomo moderno, pubblicata postuma in «Europa Letteraria», II, giugno-luglio 1961, 9-10, pp. 13-17, è ora presente con tit. Dante nel volume Opere complete, II. Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di P. Spriano, con due note di F. Venturi e V. Strada, Torino, Einaudi, 1969, pp. 487-491,

[6] V. Cian, Il Dante nostro, in Dante e il Piemonte, Torino, Bocca, 1921, p. 14.

[7] B. Croce, Il sesto centenario dantesco e il carattere della poesia di Dante, Firenze, Sansoni, 1921, p. 19.

[8] P. Gobetti, Scritti storici, letterari e filosofici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1969, p. 487.

[9]   Piero a Ada ([Laigueglia,] 3 agosto 1919), in P. Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, in appendice Diari di Ada (1924-1926), a cura di E. Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 1991, p. cit., p. 75; ora in nuova ed. riv, e commentata, Einaudi, 2017.

[10] P. Gobetti, La letteratura italiana nei licei, nel numero speciale di «Energie Nove» del 31 ottobre 1919; ora in Id., Carteggio 1918-1922, cit., pp. 440-41.

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