La guerra invincibile 

di Norberto Bobbio

Questo articolo scritto da Norberto Bobbio nel 1995, mentre infuriava la guerra nella ex Jugoslavia, può a aiutarci a comprendere la guerra che torna a infuriare nel cuore dell’Europa con l’aggressione della Russia all’Ucraina. “Se le gambe mi reggessero, lo farei ancora. Lo farei ancora perché? Ma perché so che se anche tutti i contadini del mondo si unissero per far piovere, la pioggia non verrebbe. Ma so anche che, se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una manifestazione della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire sulla faccia della Terra” (N. Bobbio).

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Mentre infuria la guerra nella ex Jugoslavia, dei movimenti pacifisti, che pure non sono inetti, si parla poco, sempre meno. Pagine intere dedicate dai giornali alle notizie della guerra, poche righe alla catena della pace di Ferragosto cui hanno partecipato migliaia di persone. Ma chi l’ascolta? Forse che i signori della guerra ascoltano le parole del Papa? Realisticamente, chi crede davvero che l’invocazione alla pace degli uomini di buona volontà possa cambiare il corso della guerra e possa mai avere una influenza determinante sul tragico destino dei popoli offesi? Si direbbe che una virtuosa manifestazione di uomini di pace e la più crudele azione di guerra che semina morte siano due eventi che procedono l’uno accanto e contemporaneamente all’altro, senza mai incontrarsi. Ancora una volta abbiamo una drammatica conferma che nella storia i fautori di guerra sono più forti dei costruttori di pace. Gli uomini hanno sempre invocato la pace e hanno sempre continuato a fare la guerra. Si sono sempre illusi che la guerra che stavano combattendo sarebbe stata l’ultima guerra. Se c’è stato un momento in cui ci si poteva aprire a questa illusione è stato la fine della guerra fredda senza spargimento di sangue. Ma l’illusione è durata poco. Delle innumerevoli ragioni per cui gruppi indipendenti entrano in conflitto cruento fra loro, gli storici non ignorano (e ce lo ha ricordato Umberto Eco in una recente intervista su questo giornale) le guerre che nascono dalla distruzione dei grandi imperi o della fine della coabitazione coatta fra gruppi etnici diversi. Non possiamo dire quindi di essere stati colti di sorpresa. Eppure non ne sono state tratte tutte le conseguenze. Altro è prevedere, altro è prevenire. Quando l’estate si avvicina, non è difficile prevedere gli incendi dei boschi, ma ce ne accorgiamo quando ormai sono divampati. E ogni anno ci si domanda, senza trovare una risposta convincente, chi li abbia appiccati.

Oggi più che mai i temi del pacifismo devono essere riproposti alla nostra attenzione. Ma non si può parlare di pacifismo in generale. Pacifismo non è soltanto invocare la pace, accorrere a proprio rischio e pericolo nei luoghi dove la guerra imperversa. Questo è il pacifismo etico-religioso, che s’ispira consapevolmente alla etica delle buone intenzioni: «Fa’ quel che devi e avvenga quel che può». Opporre la nonviolenza assoluta alla violenza, a ogni forma di violenza. Offrire l’altra guancia. Meglio morire come Abele che vivere da Caino. Tutte le guerre, in quanto tali, sono ingiuste. Si obietta però che il professare rigorosamente e coerentemente la nonviolenza assoluta serve a salvare la propria anima, ma non ha mai diminuito la violenza in questo mondo. Anzi, non è forse vero che la professata impotenza del mite finisce per favorire la prepotenza del malvagio? In un mondo in cui per osservare l’etica della nonviolenza tutti gli Stati fossero disposti a gettare le armi, l’unico che si rifiutasse di farlo ne diventerebbe il padrone. Del resto, lo stesso Pontefice, in occasione della Guerra del Golfo, aveva dichiarato che la guerra è un’avventura senza ritorno, mentre in questi giorni ha ammesso la legittimità della guerra di difesa.

In risposta a queste obiezioni, i pacifisti di oggi si rendono conto che per diventare politicamente rilevanti debbono seguire l’etica della responsabilità: «Fa’ in modo che la tua azione non sia soltanto buona in sé, ma abbi anche conseguenze buone». Di questa forma di pacifismo responsabile vi sono almeno due versioni che chiamerei, per distinguerle dal pacifismo etico-religioso, istituzionali, perché, al fine di risolvere il problema della guerra o, almeno, di limitarne l’estensione, entrambe ricorrono non soltanto alla parola, al gesto simbolico, in genere ad argomenti persuasivi, ma promuovono azioni preventivamente regolate e organizzate. La prima versione è quella che, richiamandosi alla distinzione gandhiana tra nonviolenza passiva e nonviolenza attiva, prevede la possibilità di predisporre una difesa, altrettanto efficace, fondata sull’uso di mezzi non violenti, come la resistenza passiva, la non collaborazione, il boicottaggio e così via. La seconda versione, più realistica, e in quanto più realistica, meno rigorosa, è quella che si fonda sulla distinzione fra la violenza diffusa, e come tale incontrollabile, e la violenza concentrata e controllata, quale quella di un organismo al di sopra delle parti che dell’uso dei mezzi violenti abbia, esso solo, l’esclusività. Tutti dovrebbero capire che nell’ambito di uno Stato, che è il solo legittimato ad usare la forza, la maggioranza dei cittadini non portano armi, mentre nel sistema internazionale, dove non è stato possibile finora costituire, nonostante l’Organizzazione delle Nazioni Unite, una forza al di sopra delle parti, tutti gli Stati senza eccezione sono armati. Tanto che uno Stato che non possiede un esercito non è un vero e proprio Stato, mentre un cittadino inerme non solo è un cittadino ma, almeno fino ad ora, è da considerare un «buon» cittadino.

Purtroppo la guerra in corso mostra l’insufficienza anche del pacifismo istituzionale in entrambe le versioni. Quel che è peggio, oggi constatiamo con angoscia che l’esclusività dell’uso della forza pubblica è ogni giorno sempre più minacciata. Uno dei fenomeni più sconvolgenti del mondo attuale è l’aumento crescente e irreversibile della violenza privata, della violenza di gruppi eversivi siano essi politici come quelli terroristici, siano soltanto criminali come le diverse mafie. Come può evitare uno Stato, anche con la polizia più efficiente, che un viaggiatore qualunque depositi una valigia carica di esplosivo in una stazione dove il portare una valigia non suscita alcun sospetto, o che il passeggero di una metropolitana nasconda un impercettibile deposito di gas micidiale? Il progresso tecnico ha reso sempre più potenti e insieme più disponibili gli strumenti di morte. La sfida ai costruttori di pace diventa ogni giorno più invincibile. Ci siamo difesi dal terrorismo aereo, seppure con costi di cui è difficile calcolare l’entità, col controllo dei bagagli negli aeroporti, ma come ci si può difendere dagli attentati sui treni, sui pullman, in metropolitana, da una macchina carica di esplosivo abbandonata sulla strada?

La verità è che nonostante gli innumerevoli istituti di ricerca della pace, fioriti in questi ultimi anni, non sappiamo nulla o quasi nulla delle cause delle guerre: economiche, sociali, politiche, etniche, ideologiche, religiose, metafisiche (la natura umana, il peccato originale, il castigo di Dio)? Chissà! Ma come si può trovare il rimedio al male se non se ne conosce la causa? Possiamo allora evitare che i realisti paragonino le manifestazioni per la pace alle processioni che un tempo facevano i contadini per invocare la pioggia, e inducano i giornali a non parlarne? Nessuna intenzione offensiva in queste parole. Ho partecipato anch’io a marce per la pace negli anni della guerra fredda. Se le gambe mi reggessero, lo farei ancora. Lo farei ancora perché? Ma perché so che se anche tutti i contadini del mondo si unissero per far piovere, la pioggia non verrebbe. Ma so anche che, se tutti i cittadini del mondo partecipassero a una manifestazione della pace, la guerra sarebbe destinata a scomparire sulla faccia della Terra.

Centro studi Piero Gobetti

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