Guerre e paci, ovvero per una "guerra sostenibile"

di Agostino Cera

Le osservazioni che seguono nascono in risposta e dunque dallo stimolo offertomi dall’intervento di Rosalia Peluso dal titolo La guerra è un valore (https://www.centrogobetti.it/2-uncategorised/1001-la-guerra-e-un-valore-rosalia-peluso.html), alla quale va il mio ringraziamento.

Al discorso di Rosalia Peluso, che sostanzialmente pone la questione di guerra e pace nei rispettivi statuti ontologici, proporrei un’integrazione che ne inverte l’argomento di fondo: la messa in rilievo dell’errore – logico, prima ancora che etico – sotteso alla più o meno consapevole assiologizzazione della guerra attualmente in corso. Al fatto cioè di trattarla, quantomeno sul piano argomentativo, alla stregua di valore. E dunque di un possibile fine. Questa critica alla fallacia assiologica applicata alla guerra culmina nella riproposizione dell’aut aut, non solo in termini di alternativa ma soprattutto di gerarchia, fra “politica di valori” e “politica di strumenti”.

Per quelli che si spera continueranno a restare agli occhi di tutti degli ovvi motivi, la guerra non può essere un fine. Laddove lo fosse, vorrebbe dire che stiamo facendo attivamente il tifo per la nostra autodistruzione in quanto specie umana ovvero che stiamo riproponendo quell’argomento paradossale, al limite dello psicopatologico, con cui Marinetti giustificava l’impresa coloniale fascista in Etiopia (“nella misura in cui la guerra è bella, portatrice di nuovi valori estetici, essa è anche giusta”) e che Walter Benjamin distruggeva da par suo, a conclusione de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Nell’argomento marinettiniano egli rinveniva l’apoteosi della “estetizzazione della politica” e della teologia laica dell’art pour l’art, scandite dal motto: “fiat ars, pereat mundus”.

La guerra, dunque, non può essere un fine. Tuttavia, questo implica ipso facto che essa non possa essere un valore? Nel porre provocatoriamente questa domanda tento, come anticipato, un’inversione dell’argomento proposto da Rosalia Peluso. E se invece di obiettare all’assiologizzazione della guerra (la sua assunzione alla stregua di un valore) si obiettasse a quella della pace? La vicenda dell’attuale conflitto russo-ucraino non pone in essere la possibilità di una de-assiologizzazione della pace? Della sua de-teleologizzazione? Un’obiezione di fatto al fatto che essa sia in sé, comunque e sempre, tanto un valore quanto un fine, ma che possa venir declassata allo statuto di strumento? Affermando questo, penso all’escalation di dichiarazioni e prese di posizione, a dir poco sorprendenti, esternate e assunte da coloro che stanno conducendo il suddetto conflitto. A fare specie non è il fatto, del tutto prevedibile, che “il cattivo Putin”, l’aggressore, affermi: “i negoziati per la pace li cominciamo quando lo decido io, ossia quando conviene a me”, ma che a concordare con lui su un simile assunto – va da sé, rideclinato secondo i propri interessi – sia lo stesso Zelensky, l’aggredito. Il quale ha dichiarato che prima della fine dell’estate (allorché prevede una riscossa ucraina) di negoziati, e quindi di pace, non se ne parla. Da entrambe queste prese di posizione uguali e contrarie si deduce quanto segue: la pace sì, ma non come valore assoluto, ossia non a ogni costo. La pace solo a certe condizioni. Dal che emerge un ibrido concettuale tignoso, urticante, estremamente difficile da maneggiare: la “pace giusta”. Vale a dire, il mito dell’ideale – della sua incontaminata integrità – in nome del quale si impone il principio del “c’è pace e pace”. Non esiste “la pace”, ma “le paci” per così dire. Non qualsiasi pace è, può essere considerata, una vera pace; lo è solo una pace compiuta, ossia “giusta”. La quale, detto per inciso e kantianamente, sarebbe anche l’unica a poter ambire allo statuo di “perpetua”. Ergo, per raggiungere questo ideale/fine si può anche decidere di scendere, o di restare (una volta che si sia scesi o stati costretti a scendere), in armi. Ecco servita una politica di valori/fini che in nome del valore supremo della “pace giusta”, del suo conseguimento, si assume la responsabilità di praticare certi scomodi, ma ritenuti necessari, strumenti. In nome e allo scopo di una pace giusta, si può anche decidere di fare la guerra.

La guerra come strumento “necessario”, in situazioni eccezionali (stati di eccezione), per creare o ripristinare le condizioni di una “pace giusta”: la sola pace degna di essere elevata a valore e a fine. La guerra come forzatura extranormativa per mutare uno stato di cose vigente e, una volta mutato, riapplicarvi la dimensione normativa. La strumento bellico come infrazione evenemenziale introdotta all’interno di una continuità/normalità per interromperla, per farle cambiare direzione, allorché si ritiene che normativamente (in modo convenzionalmente politico) ciò non sarebbe possibile. In questo senso, così interpretata, temo che la guerra si accrediti come uno strumento politico a tutti gli effetti, per quanto mostruoso. Come lo è, del resto e più in generale, la violenza. Si tratta, temo, di demoni da tenere a bada e governare, extremae rationes da limitare il più possibile, previo però il riconoscimento della loro esistenza. Pretendere di trattarle come fossero assurdità che non dovrebbero esistere, mostruosità e storture che non appartengono all’animo umano, risulta poco rispettoso tanto della realtà dei fatti quanto della verità del nostro essere umani. “La guerra non è una ‘febbre’ passeggera di cui ciclicamente si ammala il mondo […] Non è neppure una catastrofe che si abbatte sul mondo […] la strumentalità e la volontà della guerra si risolve in una specificità tutta umana, che mette radici nella conformazione nodosa, storta del ‘legno umano’”.

A conclusione di queste brevi considerazioni vorrei proporre un’ulteriore piccola variazione sul tema. In un contesto generale che certo non invoglia all’ottimismo, nel corso delle ultime settimane sono rimasto molto colpito – molto preoccupato – dal fatto che la guerra, gli scenari bellici, abbiano repentinamente ma serenamente fatto il loro ingresso nella normalità dei discorsi politici e dei dibattiti pubblici. Che una serie di leaders politici, compreso il nostro (quello di un Paese che ripudia la guerra per costituzione), abbiano evocato scenari proto- o simil-bellici a difesa di una serie di principi (ad es., le nuove annessioni alla NATO). Appunto, la guerra come concreto strumento e opzione politica. Ciò premesso, a destare particolare preoccupazione è il fatto che nel frattempo, sul campo dell’attuale conflitto in corso alle porte dell’Europa, venga inscenata una “guerra in punta di fioretto” quale esito di un’inaspettata e sinistra evoluzione del concetto di deterrenza nucleare. A proposito di politica degli strumenti… Diversamente da qualche decennio fa, il deterrente nucleare mostra di non possedere più una funzione automaticamente anti-bellica. Non garantisce più la pace (per quanto, una pace tesa, armata). Ai tempi di Reagan-Gorbaciov, quelli della “guerra fredda”, una guerra non avrebbe potuto che essere una guerra atomica, ragion per cui la non guerra atomica significava non guerra tout court. Oggigiorno, al contrario, si sta dimostrando praticabile una guerra a handicap, una guerra condotta con un braccio legato dietro alla schiena.

Provo a spiegarmi. Sulla base di un banale principio di analogia, si sarebbe portati a pensare che, sul piano collettivo/politico, la guerra equivalga alla situazione in cui sul piano individuale “si perde il lume della ragione” e, accecati dalla rabbia e dall’odio, infliggere danno al proprio nemico diventa un interesse prioritario, per non dire esclusivo. A qualsiasi costo o quasi. Con l’attuale conflitto russo-ucraino mi pare si assista a una fattispecie inedita. Si ha l’impressione che la Russia, alla quale basterebbero poche azioni risolute per “risolvere la questione ucraina”, combatta a scartamento ridotto, impiegando una parte minima del proprio effettivo arsenale militare, della propria potenza distruttiva. L’impressione è che così stia procedendo e così procederà nei prossimi mesi, mettendo in conto in tal modo di perdere un numero considerevole di vite russe. Certo, si dirà, lo fa per evitare guai peggiori e dunque per ragioni meramente strumentali, tuttavia… Se da un lato questo significa che non siamo ancora del tutto impazziti, dall’altro suggerisce che sono e saranno possibili in futuro conflitti a bassa/media intensità che vedano coinvolte l’una contro l’altra, più o meno direttamente, anche le superpotenze nucleari. Scaramucce e stillicidi in cui perdono la vita decine di migliaia di persone, ma in cui “per fortuna” non viene compromessa la sopravvivenza del genere umano in quanto tale, cosa che accadrebbe scegliendo l’opzione nucleare. In questo modo, è questa la variazione sul tema che vorrei evidenziare, il fatto di scongiurate scenari apocalittico-nucleari rischia di trasformarsi surrettiziamente nell’alibi per (di creare il diritto a) praticarne con paradossale buona coscienza altri meno distruttivi. Il tutto sulla base del principio di inoppugnabile buonsenso per cui migliaia di morti sono pur sempre meglio di milioni. Appunto, la guerra – la nuova “guerra saggia”, quella combattuta in punta di fioretto con armi sempre più intelligenti – come rinnovato strumento di una politica globale. Proporrei di chiamarla “guerra sostenibile”.

Ancora una volta, in nome del meno peggio diventano possibili le cose peggiori. Da “guerra e pace” a “guerre e paci”, in nome di un sano pluralismo.  

LUGLIO 2022

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