Cronache culturali - 11/19

C’era una volta Enrico Berlinguer
di Pietro Polito
 
Se è vero come è vero che la vita pubblica del Paese trarrebbe giovamento da una più forte osmosi tra la politica e la cultura, tra la politica e l’etica, può essere d’aiuto tornare a confrontarsi con Enrico Berlinguer a trentacinque anni dalla sua morte (un anniversario, a mia conoscenza, passato purtroppo inosservato tra gli eredi e nell’opinione pubblica).
 
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Nella mia vita ho avuto la possibilità di ascoltare Enrico Berlinguer a Torino in due occasioni. La prima in piazza San Carlo durante la campagna elettorale che nel giugno 1976 vide la più grande avanzata elettorale del Partito Comunista italiano, la seconda verso la fine degli anni Settanta a una conferenza aperta del Partito sulla fabbrica, la FIAT, la classe operaia.
Ricordo come la sua figura emanasse un fascino che catturava l’attenzione, con quel filo di voce che dava sicurezza in contrasto con il corpo esile, fragile eppure di una forza insospettata; lo sguardo serio, quasi sofferente, ma non triste; un’oratoria non da comizio, una conversazione da uomo di studi più che da capo di partito.
Del discorso di Piazza San Carlo mi è rimasta impressa la parte finale dedicata ai radicali, perché non ero e non sono d’accordo con il giudizio comunista sul partito radicale. Secondo me, i radicali hanno dato e per alcuni versi continuano a dare un contributo importante al rinnovamento civile di questo Paese.Dell’altro discorso ricordo una frase pronunciata dal Segretario generale che è poi diventata una delle più celebri definizioni che siano state date del Partito Comunista: un partito conservatore e rivoluzionario.
Naturalmente l’Italia di oggi uscita dalle elezioni europee che si sono svolte lo scorso 26 maggio non è paragonabile a quella che ci venne consegnata dalle elezioni europee del 1984, svoltesi pochi giorni dopo la morte di Enrico Berlinguer, avvenuta l’11 giugno di quell’anno. Il Partito comunista italiano diventò per la prima e unica volta il primo partito in Italia con il 33%, pari a 11.714.428 voti, corrispondenti a 27 seggi. Il Partito socialista italiano ebbe l’11.21%, 3.940.45 voti, 9 seggi. Il Partito Socialista Democratico Italiano il 3.49%, 1.222.462 voti, 3 seggi. Il Partito radicale il 3.41 %, 1.199.876 voti, 3 seggi. Democrazia Proletaria l’1.44 %, 506.753 voti, 1 seggio. Sommando ai 38 seggi della sinistra, i 2 del Partito Repubblicano e quello ottenuto del Partito Sardo d’Azione si ottiene una maggioranza assoluta di mezzo punto.  Un’Italia spaccata in due come una mela.
La parte della mela coperta dalla sinistra si è ridotta di molto fino ad assottigliarsi quasi all’insignificanza. Eppure a ogni anniversario della sua morte – sono trascorsi 35 anni – con la mente torniamo a Enrico Berlinguer.
Quale Berlinguer?
In primo luogo il Berlinguer capo politico italiano che parlando al suo Partito seppe parlare al Paese intero, interpretando l’esigenza diffusa nella parte migliore delle italiane e degli italiani di una rinnovata moralità individuale e pubblica. Quando nel 1975 alle elezioni amministrative e nel 1976 alle elezioni politiche tra gli allora giovani che hanno esercitato per la prima volta il diritto di voto, i tanti che hanno scelto il partito di Berlinguer non lo hanno fatto per sostituire il sistema di potere democristiano con un altro sistema di potere comunista: hanno dato la loro fiducia al “partito dalle mani pulite” (una fiducia che per molti versi si è rivelata negli anni mal posta).
In secondo luogo il Berlinguer leader comunista italiano eretico rispetto al movimento comunista internazionale. A distanza di 35 anni è ancora viva in me l’emozione che provai nel leggere sul “Corriere della Sera” il riassunto del discorso tenuto da Berlinguer a Mosca, il 3 novembre 1977, in occasione della celebrazione del LX anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Un discorso storico. Da un libretto di documenti Berlinguer. Attualità e futuro, pubblicato da “l’Unità” nel 1989 con una breve presentazione di Massimo D’Alema, Il comunismo di Enrico Berlinguer, riprendo il brano fondamentale di quel discorso: “La democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista”. Questo Berlinguer, nel tempio della rivoluzione mondiale che credeva di stare costruendo una civiltà superiore alla civiltà democratica, fa definitivamente piazza pulita di un’illusione troppo a lungo alimentata e coltivata e che troppi danni ha creato, ha continuato e in parte continua a creare.
In terzo luogo il Berlinguer più dimenticato e più vicino a noi: quello della questione morale, del “rigore” e della “guerra allo spreco” che è divenuta una necessità irrinunciabile da parte di tutti, in una sola parola il Berlinguer dell’austerità, da lui considerata un “imperativo” etico prim’ancora che politico a cui oggi non si può più sfuggire. Spiace la memoria corta dei suoi eredi e la miopia politica di una sinistra che non ha il coraggio di sostenere con forza una “politica di austerità”. Spiegava Berlinguer a Roma, nel gennaio 1977: “Una politica di austerità non è una politica di tendenziale rinnovamento verso l’indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova”.
Una politica di sinistra oggi dovrebbe opporre all’austerità dei conti, imposta dalle banche centrali e dai potenti di turno, l’austerità delle persone che rispettano le leggi e che si sentono responsabili e solidali con le sorti del Paese: “L’austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci siamo abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana”. Questa austerità ha una finalità sociale e contribuirebbe a moralizzare la vita pubblica.
 
 

Centro studi Piero Gobetti

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