Editoriale Primo Maggio (2020)

Buon primo maggio gobettiano

di Pietro Polito

Silenzio, precisione, presenza continua; una psicologia nuova si tempra a questo ritmo di vita: il senso di tolleranza e di interdipendenza ne costituisce il fondo severo; mentre la sofferenza contenuta alimenta con l’esasperazione le virtù della lotta e l'istinto della difesa politica. Quando Mussolini venne a cercare il loro applauso, questi operai dovettero guardarlo con il muto disprezzo che leggo adesso nei loro occhi. Essi sanno far rispettare le distanze.

Piero Gobetti, Visita alla Fiat, “Il Lavoro”, Genova, 15 dicembre 1923.

 

Le vicende di questa terribile pandemia hanno portato a un effetto inaspettato e inimmaginabile fino a qualche mese fa: rendere di nuovo visibile ciò che era diventato invisibile, anzi, dicendolo meglio senza contare la mezza messa, veniva nascosto, contrastato, deriso, vilipeso, ritenuto sorpassato, superfluo, inutile: il lavoro operaio e più in generale il cosiddetto (in maniera impropria) lavoro dipendente. Chi firma un contratto di lavoro, a tempo determinato o indeterminato, o con una azienda privata o con lo stato o con un ente di terzo settore non sottoscrive certo la rinuncia alla propria autonomia personale.

Gli invisibili si riprendono la scena è il titolo di un felice editoriale della direttrice de “il manifesto”, uscito lo scorso 15 marzo 2020: “Gli invisibili del capitalismo smart, - scrive Norma Rangeri – sfatando la leggenda dove tutti saremmo imprenditori di noi stessi, quei lavoratori lasciati senza protezioni nell’anno 2020 della pandemia, dentro e fuori la fabbrica, si sono fatti sentire, hanno minacciato scioperi, reclamato il diritto alla salute”. E ancora: “Gli operai di ogni settore produttivo, manifatturiero e logistico, sono tornati e non ci tengono affatto a essere chiamati eroi”[1].

A colpire è un virus sanitario che sempre più assume le sembianze di un virus sociale che fa emergere ed accresce le diseguaglianze. La salute viene declassata al livello di un bene disponibile alla catena del profitto, nel caso dei lavoratori, o alla capacità e possibilità di sopravvivenza, per gli anziani e per i  colpiti dalla malattia. Con buona pace di quanti in questi anni hanno officiato “l’ideologia del togliere di mezzo il conflitto tra chi possiede tutto e chi ha da scambiare solo la propria vita di lavoro dipendente”[2].

Il primo maggio nell’anno della pandemia coincide con il centesimo anniversario dell’occupazione delle fabbriche a Torino nel settembre/ottobre 1920, seguita e commentata in presa diretta mentre era in corso per le strade e nelle fabbriche di Torino da Piero e Ada Gobetti. Nelle loro parole riecheggiano la Rivoluzione russa e i tragici fatti rivoluzionari di Weimar nella Germania di quegli anni. Se Piero pensa di avere sotto gli occhi “la più grande battaglia ideale del secolo” e che il suo posto “sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio”, Ada crede che oggi o domani sarà il giorno della vittoria: che non ci saranno più compromessi, ma una franca lotta aperta che aprirà l'orizzonte di un giorno nuovo di lavoro e di fede per il nostro paese”[3]. Uno dei brani più noti e più citati di Gobetti è questo: “La rivoluzione che oggi si prepara non muterà, non può mutare nulla negli uomini, che saranno seri solo se si faranno tali nella loro intimità. [...] Né la rivoluzione è tutta un erompere di energie. La rivoluzione non si fa in un giorno, o se si fa è una cosa ridicola. Conta per i sacrifici che ne costarono tutti i passi” (13 settembre 1920)[4].

Tra le pagine che Gobetti ha dedicato al “problema operaio”, il discorso sugli invisibili che riprendono la parola mi ha richiamato alla mente in particolare l’articolo Visita alla Fiat[5], che in appendice a questo testo proponiamo in lettura, un omaggio a quanti hanno continuato a lavorare durante il lock down e a quanti torneranno a lavorare da lunedì 4 maggio, quando si avvierà la cosiddetta fase 2.

Il giovane liberale descrive la  visita alla Fiat, “alla periferia estrema di Torino” dove “ci si va con un tram che attraversa tutta la città, senza passar nel centro, sempre per vie fuori mano, che per trovarle bisogna andarci apposta”. Con lui “c’erano quasi tutti gli scrittori di  «Rivoluzione Liberale»”. Attraverso le sue parole si può entrare nella psicologia degli operai e respirare il “clima eretico” che regna tra uomini insensibili alle “consolazioni romane”. Certo Gobetti ci presenta con entusiasmo un Agnelli all’inizio della sua avventura, mentre ora ci troviamo alla fine di una parabola industriale e politica che ha segnato la storia di questo Paese. Inoltre il suo discorso è così intriso di una fiducia nel cosiddetto “taylorismo” improponibile oggi.

Eppure in Visita alla Fiat si possono isolare alcuni punti che vale la pena di far circolare in questo strano inquieto inusuale primo maggio che si svolge nella rete e non nelle piazze. Personalmente non sono mai mancato alla manifestazione da quando vivo a Torino e ogni volta mi emoziono vedendo sfilare il corteo da Piazza Vittorio a Piazza San Carlo. 

A un certo punto Gobetti scrive che gli operai della Fiat “hanno la dignità del lavoro, l’abitudine al sacrificio e alla fatica” e che attraverso il lavoro  sviluppano “il senso di tolleranza e di interdipendenza”, “le virtù della lotta”, “l'istinto della difesa politica”. Non a caso, “quando Mussolini venne a cercare il loro applauso, questi operai dovettero guardarlo con il muto disprezzo che leggo adesso nei loro occhi. Essi sanno far rispettare le distanze”.

Dignità, tolleranza, interdipendenza, lotta mi sembrano parole d’ordine moderne per augurare un buon primo maggio gobettiano.

 

Postilla – Il Centro studi Piero Gobetti e la questione operaia

Ricordo alcune iniziative dalle quale traspare la costante attenzione che il  Centro studi Piero Gobetti, fondato nel marzo 1961 per iniziativa di Ada, Paolo, Carla Gobetti e degli amici e degli eredi del giovane teorico della rivoluzione liberale, dedica alla questione operaia.

Nel triennio 1978-’80 l’attività del Centro, in collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza in Piemonte, si è concentrata a fondo sui problemi della condizione e della cultura operaia. L’occasione è stata una mostra sulle bandiere dei lavoratori, ideata a seguito del ritrovamento da parte di Carla Gobetti presso l’Archivio Centrale dello Stato di quelle bandiere di organizzazioni operaie che erano state esposte come trofei nella Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932. La mostra, allestita a Palazzo Carignano, è stata inaugurata il 14 marzo 1980 dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini[6].

Negli anni 1980-’82 il Centro e l’Istituto hanno proseguito la ricerca avviata con la mostra “Un’altra Italia nelle bandiere dei lavoratori”, promuovendo un seminario e un convegno internazionale sulla cultura operaia. Il seminario si è svolto in dodici incontri dal 3 dicembre 1981 al 15 maggio 1982[7]. Il convegno ha avuto luogo dal 27 al 31 maggio 1982 presso la Biblioteca nazionale di Torino. Una serata è stata dedicata alla proiezione di film di Jean Renoir e Jean Epstein, a cura di Paolo Gobetti, e un'altra all’esecuzione di Bandiere. Relazione da concerto su frammenti di canti, documenti, testimonianze popolari di Sergio Liberovici. Il dibattito sui musei della cultura operaia, affrontato nell’ultima giornata, ospitata a Palazzo Carignano - divenuto poi sede permanente della mostra sulle bandiere dei lavoratori - è stato aperto da Bobbio con una commemorazione del Partito operaio italiano a cent’anni dalla fondazione[8].

Ricorrendo il centenario dell’occupazione delle fabbriche, il Centro studi Piero Gobetti pubblica con l’editore Raineri Vivaldelli le monografie dedicate a due importanti leader sindacali Bruno Trentin di Nino De Amicis e Vittorio Foa di Antonio Bechelloni. I due libri sono acquistabili in edizione cartacea sul sito della casa editrice. Essi fanno parte della collana “Cfr. Collana di storia delle idee”, aperta da una monografia su Gobetti e prevede titoli, tra gli altri, su Franco Antonicelli, Antonio Gramsci, Silvio Trentin.

 

Piero Gobetti

Visita alla FIAT

 

Visita alla Fiat, in “Il Lavoro”, Genova, 15 dicembre 1923

 

Mussolini e il re del Belgio han messo di moda tra i torinesi le visite alla Fiat. Ci siamo stati tanti anni vicini e il pensarvi ci dava orgoglio e sicurezza; la vita nostra cittadina se ne ispirava così direttamente che era inutile toccar con mano e ci bastava il concetto dell'industria moderna e della nuova psicologia urbana, che nella mente si accompagnava alla figura di Agnelli.

La Fiat è alla periferia estrema di Torino: ci si va con un tram che attraversa tutta la città, senza passar nel centro, sempre per vie fuori mano, che per trovarle bisogna andarci apposta.

Si passa il Valentino tra la nebbia, anche a mattina inoltrata; itinerario nordico senza il bel sole italico, senza indulgenza di paesaggio. Clima eretico: uomini intirizziti, che non han tempo di sonnecchiare e che il freddo rende acuti e quasi goffamente frettolosi, come nel paese in cui Pinocchio trova la sua fata laboriosa. Il  Valentino offrirebbe consolazioni romane, ma solo di pomeriggio, col sole, quando le bambinaie vi conducono i marmocchi, e stanno ad ascoltare gli ingannevoli e dilettosi idilli di studenti e di ufficialetti a spasso, imparando quanto siano irresistibili Minerva e Marte, se vi aggiungi le seduzioni di artificiali boschetti e il canto monotono del fiume che scorre là dietro gli alberi. Gli operai ci passan di mattino, gli occhi intenti sul giornale che ancora odora di grassi inchiostri da rotativa; quando escono dopo otto ore di fatica nessuna lusinga di natura li riconcilierebbe col mondo. C’è un'altra poesia nei loro cuori, che sdegnano i trepidi sorrisi e gli incanti dei giardini artificiali. La loro psicologia è dettata dalla macchina e dalla vita in fabbrica.

Ci recammo alla Fiat giovedì mattina presto: c'erano quasi tutti gli scrittori di

«Rivoluzione Liberale», che si lasciavano leggere negli occhi l'orgoglio di esser stati i primi teorici di quella vita industriale, e un nugolo di soci della « Cultura», che andavano da buoni borghesi, per imparare. E il più bello della visita era nella curiosità di questi osservatori, negli occhi stupefatti di chi è uso alla letteratura e si trova in un cortile di officina.

Chi entra nella Fiat può credere di trovarsi in un grande albergo moderno, pulito, con scale simmetriche, con grandi porte a vetri. Tutto bianco, niente decorazioni, i soli mobili indispensabili: squallido, ma grandioso. Nel primo palazzo che vi accoglie non si lavora: ci sono uffici e scuole. L'americanismo comincia con la filantropia; una filantropia fatta di calcolo e di utile reciproco. L'idea deve essere stata di Agnelli, l'uomo delle intuizioni e delle accortezze psicologiche. Non si capirebbe la fortuna della Fiat e la sua popolarità tra le folle se non si pensasse a queste qualità diciamo pure politiche, di Agnelli: il capitano d'industria che sa capire e sfruttare (negli altri!) il valore del disinteresse, l’uomo che sa conquistarsi le simpatie col sorriso, che dopo aver fallo i calcoli non si perita di giocare sull'imponderabile. Agnelli capisce il valore delle forme e dei gesti, l'utilità di sapersi mostrare non aridi, proprio quando l'impresa è fondata sull'aridità e sul commisurare i prezzi di un uomo e della sua vita ai prezzi delle macchine. Agnelli ha le sue risorse poetiche, come quando salutò Mussolini a nome di Torino, prima che parlasse il prefetto, scavalcando tutte le gerarchie. Al tempo delle agitazioni socialiste era i1 solo industriale che riuscisse a trattare con le masse; alle quali confidava piacevolmente che sarebbe rimasto loro imprenditore in regime collettivista; e prima degli entusiasmi wilsoniani convertiva Cabiati all'idea della Società delle Nazioni, dimostrando agli operai che il padrone non era meno internazionalista di loro. In Agnelli, sotto l'istinto del despota, si sente lo spirito della moderna democrazia industriale, nutrita di finanza e di politicantismo, malata di demagogia tribunizia, ma fatalmente suscitatrice di correnti popolari, di vigorosi entusiasmi autonomi, di senso del sacrificio e di volontà di libertà.

Invece, entrando nei veri e propri stabilimenti del Lingotto, si ha la sensazione di un altro ambiente e di un'altra organizzazione. Dal « Laboratorio prove materiali» al « Montaggio», dal primo all’ultimo piano (con pista di collaudo sopraelevata, a ventisette metri di altezza), tutto procede secondo il più rigoroso taylorismo. L’ingegnere che ci accompagna ci spiega come i pezzi non tornano mai indietro; sottoposti ai più formidabili processi, si trasformano, si fondono, si riuniscono fino a formare una delle sessanta macchine che, oggi, in periodo di disoccupazione, si producono quotidianamente.

Per descrivere il cammino di questa materia Ariosto cercherebbe immagini infernali. I magli poderosi spaventano con le loro scintille i visitatori letterati, Sembra che per resistere a questa vita quotidiana sia necessaria un' anima eroica. Invece tutto è semplice, normale, sicuro: qui domina l'anima dell'ingegner Fornaca, il rovescio della medaglia di cui Agnelli è la fronte; il puritano arido e feroce, lo spirito d'ordine e di continuità, il fanatico freddo e inesorabile, che ogni giorno deve foggiare dalla materia grezza sessanta nuove automobili, secondo il sistema di divisione del lavoro a cui egli presiede. È il dominatore senza indulgenza, il sacrificato, la vittima; se ne sente parlare con terrore e con odio. Se Agnelli è il capitano, egli deve essere lo sbirro, innocente eroe del regime capitalista. Per Fornaca la Fiat deve essere un orologio: e i congegni contano per la puntualità e secondo il prezzo; gli uomini secondo il costo del premio di assicurazione sulla vita.

Mentre la nostra guida spiega i congegni ed enuncia cifre épatantes, io guardo gli uomini. Hanno tutti un atteggiamento di dominio, una sicurezza senza pose; e pare che in noi vedano dei dilettanti ridicoli da considerare con disprezzo. Hanno la dignità del lavoro, l’abitudine al sacrificio e alla fatica. Silenzio, precisione, presenza continua; una psicologia nuova si tempra a questo ritmo di vita: il senso di tolleranza e di interdipendenza ne costituisce il fondo severo; mentre la sofferenza contenuta alimenta con l’esasperazione le virtù della lotta e l'istinto della difesa politica. Quando Mussolini venne a cercare il loro applauso, questi operai dovettero guardarlo con il muto disprezzo che leggo adesso nei loro occhi. Essi sanno far rispettare le distanze.

I dilettanti, i dinamici, traggono un sospiro di sollievo quando. si giunge all'ultimo piano dello stabilimento: sulla pista. Peccato che ci sia ancora la nebbia fitta! Non si può godere il panorama, gustare la poesia delle Alpi nevose! La nostra guida ci ricorda la gioia di Mussolini quando fu quassù, nella palestra di Nazzaro e di Bordino, lontano dagli operai diffidenti e noiosi. Ricorda il giro fatto dal re del Belgio a 140 km, dalla regina a 137. Siamo all' aria aperta; regno della velocità, spettacoli, feste. La vita è dei dinamici, dei più veloci. Le fantasie meridionali sono soddisfatte. Marinetti dirà il canto dei motori: parole in libertà ed entusiasmi consolanti.

Sotto si prepara la morale del lavoro, la civiltà dei produttori.

 

Note:

[1]  N. Rangeri, Gli invisibili si riprendono la scena, “il manifesto”, 15 marzo 2020, p. 1.

[2] Ibidem.

[3] P. e A. Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918 – 1926, in appendice: Diari di Ada (1924 – 1926), a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 1991, p. 231.

[4] Ivi, p. 385.

[5] Visita alla Fiat, in “Il Lavoro”, Genova, 15 dicembre 1923.

[6] Centro studi Piero Gobetti - Istituto Storico della Resistenza in Piemonte, Un’altra Italia nelle bandiere dei lavoratori. Simboli e cultura dall’unità d’Italia all’avvento del fascismo, prefazione di Sandro Pertini, premessa di Norberto Bobbio, introduzione di Guido Quazza, Torino 1980. Seconda edizione 1982. Il catalogo fu presentato il 21 gennaio 1981 con interventi di N. Bobbio, G. Quazza, P.C. Masini, Y. Lequin, D. Devoti, G. Romano, G. Gentile.

[7] Aspetti della cultura operaia. Fabbrica, vita di relazione, rappresentazione del lavoro nell’arte , a cura di E.A. Perona, “Mezzosecolo”, 4, Annali, 1980-1982.

[8] La cultura operaia nella società industrializzata , “Mezzosecolo”, 5, Annali 1983-1984.

Centro studi Piero Gobetti

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