L’altra riva del mare: viaggio tra le isole di Cesare Pavese
di Alessandra Chiappori
«Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò»: lo leggo sul biglietto da visita di una libreria di Roma, l’ho infilato distrattamente mesi fa dentro a un volume che parla di mappe e che è diventato la custodia perfetta per questo pensiero. È una citazione tratta da Cesare Pavese, e mi è corsa alla memoria leggendo il nuovo volume della collana Passaggi di dogana di Giulio Perrone Editore. Si intitola A Torino con Cesare Pavese – un arcipelago interiore, lo ha scritto Pierluigi Vaccaneo, direttore della Fondazione Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo che custodisce la memoria dello scrittore, valorizzando percorsi nei cosiddetti luoghi pavesiani e promuovendo il Festival Pavese, un momento culturale che ogni fine estate mescola parole, musica e suggestioni per riscoprire l’autore morto suicida nel 1950.
Era la notte tra il 26 e il 27 agosto, in una stanza dell’Hotel Roma di Torino si consumava la tragedia di cui in uno strano e faticoso 2020 si ricordano i 70 anni esatti. Ed è da questa distanza storica che prende avvio la riflessione di Vaccaneo: sono trascorsi molti anni, è tempo di lasciare alle spalle i perché e i «pettegolezzi» che lo stesso Pavese paventava nel suo biglietto di addio. Oggi è tempo di perdonare Pavese per il suo viaggio irrisolto, per la sua ricerca senza esito, la vita così sempre faticosamente scritta e quell’altra riva del mare che forse tentò di raggiungere nella solitaria fine di agosto dell’anno che lo aveva incoronato vincitore del Premio Strega con La bella estate.
La suggestione del viaggio per mare che mi ha colpita è la stessa che ispira A Torino con Cesare Pavese, una ricognizione di un arcipelago fatto di nodi, interessi, temi ricorrenti e punti sulla mappa di una biografia che non può fare a meno di mescolare vita e scrittura, da sempre sullo stesso piano per «l’amanuense di via Biancamano», indefesso redattore, scrittore, ricercatore del sé più autentico. La ninfa Calipso accoglie infatti un girovagare per isole alla ricerca di qualcosa che sfuma, sfugge, delude ed esaurisce la forza. Quello di Pavese è così il nostos impossibile di un non-Ulisse novecentesco attraverso un arcipelago di cinque isole: il mito, l’America, le donne, Torino e le Langhe. Mondi in cui scavare, universi dove cercare e indagare in quell’incessante lavoro portato avanti dallo scrittore torinese per tutta la vita.
Il fondale dell’arcipelago pavesiano è rappresentato dal mito: un’impronta che modella l’esistenza con la sua carica di mistero. È una sfida per l’artista: una sfida a cui Pavese decide di dedicare la propria esistenza intera, una strenua ricerca rivolta allo specchio, cercando di decifrare se stesso nei temi ricorrenti della terra e dell’infanzia, l’origine di tutto, sciogliendo nodi esistenziali nell’abisso della propria coscienza, laddove resiste il segreto di una vita adulta irrisolta. Una vita il cui “mestiere” va appreso tenendo a bada il costante senso di disagio, di esclusione e conflitto.
Il mito è fatto anche di segni celati sotto la trama, passi lungo il sentiero della ricerca. «Ogni romanzo di Pavese ruota intorno a un tema nascosto, a una cosa non detta che è la vera cosa che egli vuol dire e che si può dire solo tacendola» scriveva Italo Calvino parlando dell’amico e maestro in Pavese e i sacrifici umani «Tutt’intorno si compone un tessuto di segni visibili, di parole pronunciate: ciascuno di questi segni ha a sua volta una faccia segreta (un significato polivalente o incomunicabile) che conta più di quella palese, ma il loro vero significato è nella relazione che li lega alla cosa non detta».
Non a caso la piena maturità dello scrittore si ritrova nell’ultimo romanzo, La luna e i falò, dove il mito, l’infanzia e il mistero si intrecciano tra riferimenti autobiografici e quella difficoltà di affrontare l’esistenza che riecheggia in tutti i personaggi pavesiani, di fatto il tema centrale di tutta una poetica, costruita come e in sostituzione di una vita. Lo scrittore – Vaccaneo lo ricorda più volte – prende presto il posto dell’uomo nel percorso esistenziale di Cesare Pavese: un ideale che, forgiando l’autore che oggi leggiamo e conosciamo, non lasciò posto all’uomo, rimasto intrappolato nel labirinto di una vita non vissuta, rappresa in quel mito in cui scavare inseguendosi. «Lo scrittore ha sempre vinto sull’uomo soffocandolo irrimediabilmente – spiega Vaccaneo - Una vita va vissuta, non letta, studiata o scritta. Perdoniamo Pavese per non esserci riuscito».
È la pagina scritta, invece, il terreno dove Pavese si fa attivo nel costruire la propria voce. Lo fa guardando al di là dell’Oceano senza tuttavia mai vedere di persona quell’America così nuova che gli fornisce una lingua attraverso cui mettere insieme la sua identità di scrittore. «Scribacchio, vomito poesie, per avere un terreno su cui fermarmi e dire “Sono io”. Per provare a me stesso di non esser nulla» affermerà nelle Lettere. Dalla tesi di laurea su Walt Whitman alle traduzioni attraverso le quali portò in Italia i capolavori americani tra cui Moby Dick, lo sguardo dell’autore sa percepire la vibrazione di una lingua e del suo inedito rapporto con il lettore, e con i luoghi.
La vita privata, tuttavia, riserva sorprese amare: sono quelle legate al rapporto con le donne, tra amori finiti male e drammatiche reazioni di un Pavese che riversa la frustrazione nel suo diario, Il mestiere di vivere. È in questo serbatoio di pensieri che si ritrova un’altra isola, quella dedicata alla città, che non potrebbe essere che Torino, incarnazione della contraddizione che muoveva Pavese – e che muoverà i suoi personaggi – verso la campagna e le Langhe, luogo dell’anima e del mistero. Un movimento doppio, contrario e per questo bruciante, che non trovò soluzione nella profonda immedesimazione con la vita urbana per la quale, tuttavia, Pavese si sentì sempre profondamente inadeguato.
Fughe, tentativi: la Torino notturna, il fiume e quei Paesi tuoi ad attendere oltre la collina. Sono nervi scoperti: flussi di corrente intensa da attraversare navigando nell’arcipelago pavesiano fatto di temi, spunti, innovazioni e sguardi profondi, ma anche di approdi mancati e ormeggi ai quali non riuscire mai a fare ritorno. È rintracciando questi fili che il libro di Vaccaneo diventa una mappa sulle tracce di uno scrittore di profonda sensibilità, attuale e dalla voce cristallina come solo un classico, oggi, può essere.
A Torino con Cesare Pavese è un intelligente omaggio, un ricordo, un invito alla lettura, uno stimolo al perdono. Fu lo stesso Pavese a chiederlo nel suo biglietto vergato poco prima di morire: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono». Basta pettegolezzi, dunque: è tempo di viaggiare tra le parole scritte, il vero tesoro lasciato in eredità da Pavese. Solo leggendo, scoprendo e riscoprendo le tappe del suo percorso inquieto, incastonate tra i temi ricorrenti, i personaggi e le attitudini delle sue opere, emergerà il senso della sua ricerca sfortunata e insoluta. «Leggere Pavese oggi significa stare davanti a quello specchio per trovare il coraggio di riconoscersi – scrive Vaccaneo - di sostenere quello sguardo, accogliendolo. Leggere Pavese oggi significa non essere Cesare Pavese per trovare nell’inquietudine del viaggio la via d’uscita dal labirinto».