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Chiave di lettura - Il mestiere solitario nell'editoria di Cesare Pavese (Marta Vicari)

Il mestiere solitario nell'editoria di Cesare Pavese

di Marta Vicari

 

Quando, nel 1992, Gian Carlo Ferretti pubblica con Einaudi L’editore Vittorini, gli studi sull’editoria non erano più solo un insieme di «vicende delle imprese editoriali con le statistiche sulle vendite»[1] ma «si era già manifestata la consapevolezza della necessità di muoversi in ambiti settoriali più definiti» tra cui «quello più strettamente storico-letterario che interseca la storia della letteratura con la storia dell’editoria, le vicende intellettuali personali con la dimensione pubblica del lavoro editoriale».

Questo nuovo punto di vista portò a riscoprire non solo la centralità che ebbero nel determinare la nostra storia letteraria alcuni importanti editori protagonisti (come, ad esempio, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Arnoldo Mondadori) ma anche a riflettere su una particolare categoria di letterato del ‘900: il letterato editore. Fu Alberto Cadioli a coniare questa espressione in un testo del 1995 (appunto, Letterati editori, di cui uscì una terza edizione aggiornata per Il Saggiatore nel 2017); con essa, Cadioli indicava non tanto lo scrittore che prestava servizio nell’editoria colui che collaborando «con una casa editrice dalla quale trae un sostentamento economico, diffonde una propria idea di cultura, una propria poetica, una propria modalità di lettura»[2].

Gli studi dedicati a questi letterati editori, tra cui Calvino, Debenedetti, Pavese ma anche Cesare Garboli, Natalia Ginzburg, Niccolò Gallo[3] sono utili poiché fanno luce più o meno direttamente sul modello di letteratura che essi contribuirono a diffondere nel panorama letterario italiano del ‘900. Permettono, quindi, di aggiungere un tassello alla conoscenza di queste figure, spesso studiate, amate, lette come scrittori, giungendo quasi a determinare «una vera e propria rilettura della carriera intellettuale, dell’opera letteraria e della produzione critica di quello stesso letterato attraverso il suo lavoro editoriale»[4].

Ad inizio 2017 sempre Ferretti ha aggiunto uno di questi tasselli non solo alla storia dell’editoria italiana del ‘900 ma anche alla conoscenza più profonda di uno dei suoi massimi protagonisti: Cesare Pavese. Per Pavese e per i letterati impiegati nella casa editrice Einaudi, Ferretti conia quasi una sottocategoria rispetto a quella di letterati editori, quella di autori editori. Con essa, il critico rimarca con maggior forza il nesso tra l’attività editoriale e quella più specifica della scrittura come mestiere: «Si può anzi dire che soprattutto gli einaudiani Pavese, Vittorini e Calvino sono autori editori, ancor più che letterati editori, per la creatività che caratterizza gran parte del loro lavoro editoriale, e per i nessi sottili che legano entrambe le loro attività»[5].

Il saggio di Ferretti propone una lettura diversa, per molti lettori probabilmente nuova: tramite le «lettere editoriali e note redazionali e pareri di lettura, già editi o ancora inediti, manoscritti e dattiloscritti, nei quali si può seguire la sua conduzione della casa editrice, e il suo straordinario, infaticabile lavoro a tutti i livelli»[6] si ricostruisce la figura di Pavese non letterato tout court ma, appunto, letterato editore.

Il volume si organizza intorno ad alcuni temi che vanno dal rapporto con la politica (sia in un’ottica privata sia come parte del cervello collettivo di Casa Einaudi) a quello con Vittorini, dal lavoro per le collane di Einaudi a quello per la sua collana, la collana viola, sino ad affrontare i temi più legati alla vita privata, così presenti nella sua produzione letteraria. Infine, quello del rapporto tra Pavese uomo (prima che letterato) e il lavoro per Einaudi. Queste ultime riflessioni, benché tematizzate soprattutto nel secondo capitolo (efficace l’immagine dell’ancora di salvezza, che ne dà il titolo) ritorna poi in più momenti, durante tutta la lettura del volume. Il lavoro editoriale è per Pavese come un appiglio, la «strenua difesa dalla disperazione e dalla morte»[7], strumento per riempire (letteralmente, occupare) la sua vita, «un instancabile tenace impegno ben al di là di quanto gli spetta o gli viene chiesto istituzionalmente o praticamente»[8].

Rispondendo a una domanda di Severino Cesari che sottolinea come «Pavese sia stato anche uno che nella Einaudi aveva trovato non solo la casa editrice, ma proprio la casa», Giulio Einaudi riconobbe che «Certo, Pavese si identificava completamente nella Einaudi e tutto quello che ha fatto ha gettato le basi della casa editrice» precisando che «Pavese era un direttore editoriale vero e proprio. Anche se i gradi se li era conquistati sul campo…»[9].

La serietà, la dedizione, l’estremo rigore con cui Pavese svolgeva il mestiere editoriale emerge con evidenza dalla lettura dei siparietti con i colleghi della casa editrice torinese, raccontati da Natalia Ginzburg, così come emerge, dalle parole della stessa Ginzburg, il rigore di Pavese scrittore. Riportando la notizia della morte, Ginzburg ricorda, con dolore e rabbia:

Aveva sempre, nei rapporti con noi suoi amici, un fondo ironico, e usava, noi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore, non nei suoi rapporti con le donne di cui s’innamorava, e non nei suoi libri […] Nell’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non esser mai per intero se stesso: e a volte, quando io ora penso a lui, la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso[10].

Nel settembre del 1949 egli annotava nelle pagine del diario: «La risorsa ancestrale è solo questa: fare un lavoro bello perché così si deve fare»[11]. Questa concezione del lavoro ha ripercussioni importanti nelle riflessioni sulla propria esistenza: «Non hai più intimità. Meglio, la tua intimità è oggettiva, è il lavoro (bozze, lettere, capitoli, sedute) che fai […] Ti vai prosciugando»[12], scriveva verso la fine di quello stesso settembre ‘49.

Nei manoscritti che si accumulano sulla sua scrivania, ed attraverso il lavoro editoriale, Pavese ricerca la presenza di quella stessa profondità che esigeva da se stesso ed anche «una produttività severa, rigorosa, concreta, e una operosità meticolosa, instancabile, tenace, che gli consentano anche di controllare, contenere, ordinare e dirigere il suo travaglio personale e intellettuale»[13].

Molti dei protagonisti del secondo dopoguerra del mondo editoriale hanno dato testimonianza all’unisono della grande produzione di testi che, terminata la dittatura ed il conflitto mondiale, invasero le case editrici. Tra i tanti, Calvino, ad esempio, sottolineava come «L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico […] La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare»[14].

Ma anche il poeta Vittorio Sereni, recensendo Il campo 29 di Sergio Antonielli, ammetteva che «troppo forte, in chi vive un’esperienza che gli pare d’eccezione, è l’impulso a trascriverla, magari nell’illusione d’un risultato garantito da quella stessa eccezionalità e intensità o piuttosto stranezza di episodi e di emozioni, di una storia già bell’e fatta che sia solo da mettere in carta»[15]; ed ancora la stessa Ginzburg denunciava:

Ma l’errore comune era sempre credere che tutto si potesse trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole, così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole, per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea. Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione[16].

L’atteggiamento di Pavese editore dinnanzi allo strabordare di produzione più o meno letteraria fu molto severo, se non, a tratti, di insofferenza. Egli parlava di «innumerevoli manoscritti di vita partigiana, clandestina, carceraria, zebrata»[17] che giungevano in casa Einaudi e rivendicava per la dignità letteraria un elemento in più, rispetto alla sola esperienza vissuta, sostenendo infatti che non bastava «l’enormità dei fatti sperimentati, o creduti sperimentare, per fare letteratura»[18]. Ed attraverso il lavoro editoriale, di valutazione e selezione, egli poté contribuire ad immettere nel mercato editoriale testi che non fossero esclusivamente testimonianze.

Il mestiere editoriale portato avanti con intransigenza, costituì per Pavese «una zona franca, insomma, un rifugio armato, una protratta salvezza, una casa»[19].

 

Note:

[1] A. Cadioli, Letterati editori, il Saggiatore, Milano 2017, p. 33.

[2] Ivi, p. 20.

[3] Rimando, per questi ultimi, al volume curato da G.C. Ferretti, Protagonisti nell’ombra, Edizioni Unicopli, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2012.

[4] G. C. Ferretti, Protagonisti nell’ombra, op. cit., p. 9.

[5] G.C. Ferretti, L’editore Cesare Pavese, Einaudi, Torino 2017, p. 38.

[6] Ivi, p. IX.

[7] Ivi, p. 25.

[8] Ibidem

[9] S. Cesari, Colloqui con Giulio Einaudi, Einaudi, Torino 2018, pp. 43-44.

[10] N. Ginzburg, Lessico famigliare, Einaudi, Torino 2014 (I ed. 1963), p. 175.

[11] C. Pavese, Il mestiere di vivere, a cura di M. Guglielminetti e L. Nay, Einaudi, Torino 2006, p. 374.

[12] Ibidem

[13] Ivi, p. 39.

[14] I. Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1974.

[15] V. Sereni, Il campo 29, Edizioni Europee, Milano 1949. Ora in Id., Poesie e prose, Mondadori, Milano 2013, p. 822.

[16] N. Ginzburg, Lessico famigliare, op. cit., p. 148.

[17] L’editore Cesare Pavese, op. cit., p. 69.

[18] Ibidem

[19] Ivi, p. 43.

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