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Chiave di lettura - Il mestiere di vivere (Norberto Bobbio)

Norberto Bobbio

Il mestiere di vivere

 

(Da N. Bobbio, Il mestiere di vivere, di insegnare, di scrivere, Conversazione con Pietro Polito, Passigli, Firenze 2014, pp. 36-42)

 

Leggo dal  De senectute: “Ho l’abitudine o la tentazione di vedere sempre il lato oscuro delle cose, e anche di me stesso. Detto brevemente, sono stato in tutta la mia vita inseguito o addirittura perseguitato dal dubbio di non essere all’altezza del compito o meglio dei compiti. Due compiti difficilissimi: insegnare e scrivere. Non parlo del  «mestiere di vivere», ancora più difficile”. Sempre nel  De senectute scrivi: “Per fare bene il mestiere di vivere non ho mai avuto una grande vocazione (oggi si direbbe «professionalità»)”[1]. Per questo  ringrazi la persona che più di tutte ti ha aiutato a vivere [2].

R: Verissimo, tutto ciò che sono riuscito a fare nella mia vita l’ho fatto con grande difficoltà, con l’impressione che il mio agire, specificamente per uno scrittore, la lettera o il saggio o il libro, non riuscisse a giungere mai alla conclusione, e se una conclusione appariva non fosse mai defintiva, ma fosse soltanto il punto di partenza per uno scritto successivo, che sarebbe stato certamente migliore. E’ stato osservato da alcuni benevoli giudici, e ho osservato io stesso più volte, che spesso i miei scritti terminano con un punto interrogativo. Quale democrazia? Quale socialismo? Quale pace?[3] Maliziosamente qualcuno, riflettendo sulla varietà e dispersione dei miei scritti, si è domandato: “Quale Bobbio?”.

Questa costante insoddisfazione, questa sensazione di non riuscire nel raggiungere lo scopo prefissato,  ha finito per creare quello stato di ansia, che si trasforma spesso in una severa autocritica e, talora, è  paralizzante. La stessa difficoltà, forse maggiore, ho avuto sin da quando ero a scuola, soprattutto nei riguardi di mio fratello che era di facile parola, nell’esprimermi. Una difficoltà che mi sono trascinato per tutta la vita, dedicata ad un mestiere come quello dell’insegnante in cui la facilità di parola è  una delle  principali virtù. Ho fatto non so quante conferenze nella mia vita, sui più diversi argomenti, ma quasi sempre ho preferito scrivere il testo e poi leggerlo, piuttosto che parlare direttamente senza appunti. Ogni conferenza è stata per me quasi sempre una pena, prima, per il dubbio sul modo in cui il pubblico  l’avrebbe accolta; dopo, per la convinzione tormentosa di non essere riuscito a spiegarmi. Raramente sono stato tranquillo la notte precedente, ancor più, la notte seguente.

D: L’espressione «il mestiere di vivere» evoca la figura di Cesare Pavese. Che ricordo ne hai?

R: Certamente. Tra i libri di Pavese, quello che mi ha commosso di più e ho letto e riletto più volte è proprio Il mestiere di vivere . Del resto, ho conosciuto troppo bene Pavese, e non ho bisogno di leggerlo e sfogliarlo per conoscerlo a fondo. Non siamo stati compagni di liceo perché lui aveva un anno di più. Ma io ho fatto parte del gruppetto di allievi del D’Azeglio, che si riunivano intorno ad Augusto Monti, dopo l’uscita dal liceo e negli anni universitari, per prepararci a diventare “uomini di lettere”, ciascuno nel campo di studi da lui preferito. Come è stato raccontato altre volte, le riunioni avvenivano ogni mercoledì nel pomeriggio, in un piccolo caffé di una breve via torinese vicino alla stazione. Sono gli anni in cui i più precoci, Ginzburg, Mila e, appunto, Pavese, fanno le loro prime prove di scrittura su riviste come “Il Baretti” e “La Cultura”, pre-einaudiana ed einaudiana. Ebbi per qualche tempo con Pavese un rapporto personale, perché, entrato all’Università, avevo cominciato a prendere lezioni d’inglese insieme con mio fratello. Saputolo, Pavese si dimostrò piacevolmente interessato a leggere con me testi classici della letteratura inglese, che egli aveva letto e commentato per conto suo e cercato in parte di tradurre. Veniva lui stesso a casa mia al mattino. Leggevamo e traducevamo insieme. Ricordo benissimo i due testi letti, da una sua edizione punteggiata di sottolineature e di parole tradotte in margine: il Prometeo liberato di Shelley e La tempesta  di Shakespeare. Non posso dire però di essere entrato con lui in confidenza come con altri compagni di quell’estate. I miei primi rapporti con Giulio Einaudi editore, li tenni più attraverso Ginzburg che con lui. Ricordo però ancora chiarissimamente le letture che Pavese veniva facendo agli amici delle prime poesie, che poi riunì nel noto libro Lavorare stanca. La lettura avveniva in un noto ristorante all’inizio della collina, frequentato anche per le tre belle sorelle che insieme col fratello lo conducevano. Sono stato anch’io per anni nel gruppo redazionale della casa editrice Einaudi, in cui, dopo la morte di Ginzburg,  il redattore più autorevole e ascoltato era diventato Pavese. La notizia della sua morte, il 15 agosto 1950, mi giunse quando io ero in campagna. Scesi subito a Torino, partecipai ai funerali, alla fine dei quali Mila disse alcune parole, che purtroppo non ricordo,  a nome di tutti, mentre la bara stava per essere inumata. Avevo ricevuto l’ultimo suo libro, La luna e i falò, con una breve dedica: “A Bobbio conterraneo”. Del suicidio di Pavese sono state scritte pagine e pagine, le più diverse interpretazioni. Non ricordo che tra i vecchi amici se ne sia mai parlato. Non ho mai avuto dubbi che il diario pubblicato postumo avrebbe dovuto essere intitolato il tormento di vivere[4].

D: Ci aiutano molto a vivere, credo, sia gli amici sia i buoni maestri. Che cos’è l’amicizia per te?

R: In generale, e quindi anche per me, l’amicizia rappresenta la seconda fase della nostra esperienza affettiva. La prima è quella che avviene nell’ambito della famiglia. La terza è quella dell’amore. Usciti dal grembo della famiglia, quando si diventa adolescenti, ciascuno di noi vive l’esperienza bellissima e ricca dei rapporti coi suoi coetanei. L’ambiente in cui nascono questi rapporti è generalmente la scuola. Non necessariamente soltanto la scuola. Occasioni di trovare amici possono essere attività come le gite in montagna, le vacanze al mare, la passione per la musica e la partecipazione ai concerti, l’unirsi in gruppi per svolgere qualsiasi altra attività extrascolastica, associazioni religiose, la parrocchia, opere di carità e così via. Anche le amicizie che nascono in scuola non nascono da tutta la scuola: l’amicizia è un atto di elezione, di cui è persino un po’ misterioso l’atto di nascita. Tra i compagni della stessa classe, ci sono quelli che restano compagni nonostante l’appartenenza alla stessa classe per anni e non diventano amici. Dei miei compagni di ginnasio e di liceo, la maggior parte li ho completamente dimenticati. Ne ricordo a malapena i nomi. Altri, invece, hanno costituito il primo nucleo di un’amicizia durata poi anche al di là degli anni di scuola. In liceo si era formato un piccolo e affiatatissimo gruppo di cinque compagni che avevamo chiamato classicheggiando “pentandria”. Ne faceva parte, anzi ne era stato l’ispiratore, Leone Ginzburg. Le prime lettere che ho conservato di lui, scritte durante le vacanze, erano indirizzate: “Al pentandro ...”. Ci riunivamo, almeno una volta la settimana, a giocare alle carte (il gioco allora di moda era il poker), e a discutere sui libri letti e sugli avvenimenti del giorno. Gli anni cui mi riferisco sono quelli del fascismo che diventa regime (1924-1927). L’ho già ricordato altre volte, in quelle riunioni, Ginzburg, il più letterato, ci leggeva brani di un romanzo che stava scrivendo.

Anche la più grande delle amicizie, come il più grande amore d’altronde, raramente dura tutta la vita. Come misteriosamente nasce, l’amicizia misteriosamente muore. Un vecchio come me potrebbe dividere il lungo corso della propria vita secondo le diverse fasi di questa o di quell’altra amicizia. Ne potrei trarre una prova, se ne avessi il tempo, dai diversi blocchi di lettere che costituiscono la mia corrispondenza: blocchi più o meno voluminosi, ma anche quelli che lo sono di più hanno una data d’inizio e una data di fine.

Come si dice “l’amore della mia vita”, per indicarne non tanto la durata quanto l’intensità, potrei dire che l’amicizia della mia vita, e da me stesso celebrata, è stata quella con Ginzburg, per quanto non di lunga durata: nata nel 1924, in prima liceo, quando avevamo quindici anni, è terminata con la sua tragica morte a Regina Coeli per mano tedesca il 5 febbraio 1944. Nel ritratto che ho fatto di lui ho scritto: “Leone aveva il culto dell’amicizia [...]. Quando c’incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa [...] gli si apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l’ospite inviato dagli dei [...]. Qualche volta gli amici arrivavano a gruppi: Leone non si scomponeva, e se non c’era una seggiola per tutti, alcuni si sedevano sul letto. Ma non chiudeva la porta in faccia a nessuno”[5]. Ho descritto più volte quegli incontri a casa sua, come il luogo privilegiato in cui l’amicizia nasce, si consolida  e se ne fa la più autentica esperienza.

 

Note:

[1] N. Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, a cura di Pietro Polito, introduzione di Gustavo Zagrebelsky, Einaudi, Torino 206, p. 109.

[2] “Ringrazio tutti dal più profondo del cuore. E vorrei che i miei ringraziamenti fossero, questo sì, distribuiti egualmente. Tranne che a una persona, mia moglie, che è più eguale degli altri. Dopo di che invito tutti a considerare se, nel succedersi dei festeggiamenti, questo per gli ottant’anni non sia da considerarsi l’ultima scena, in cui l’attore viene a congedarsi dal pubblico fuori dal sipario prima che si spengano definitivamente le luci”.                                                                                                                                                       (Id, De senectute e altri scritti autobiografici, cit., p. 114).

[3]  “Fra le numerose cose che Norberto Bobbio ci ha insegnato, una è certamente quella di impiegare con entusiasmo e senza eccessiva parsimonia l’aggettivo «quale» [...] Viene da pensare che in un lessico aggiornato della filosofia politica (che suggerisco a Umberto Eco) un «bobbio» sia definito come un particolare tipo di canna da pesca che, utilizzando come esca il «quale», cattura prede del tipo «democrazia», «socialismo» e dio sa che altro” (S. Veca, Socialismo e liberalismo, in L. Bonanate, M. Bovero, a cura di, Per una teoria generale della politica, Passigli, Firenze, 1986, p. 179.

[4] Di grande interesse è forza emotiva è l’accostamento tra Piero Gobetti e Cesare Pavese che Bobbio propone in Tren’anni di storia della cultura a Torino (1977), a cura di Alberto Papuzzi, Einaudi, Torino 2002, tra la  volontà di vivere e il tormento di vivere.

[5] N. Bobbio, Ritratto di Leone Ginzburg, in Id., Maestri e compagni , Passigli, Firenze, 1984, pp. 174 e 176. Nell’Autobiografia Ginzburg viene presentato come “un modello di educazione politica” (p. 14).  In questa ripresa del dialogo con il professore aggiungo un altro brano tratto dal suo ritratto di Leone: “Agli amici Leone diede tutto se stesso; ma era, d’altra parte, esigentissimo. Guai a non farsi vivi con lui per qualche tempo, a non telefonargli, a non scrivergli quando si andava in vacanza. L’amicizia era un fuoco sacro, che doveva essere alimentato giorno per giorno perché non si spegnesse. Soprattutto rappresentava, come l’amore, forse più che l’amore, l’esempio genuino di un rapporto umano disinteressato, da cui esula ogni motivo egoistico ed è dominato soltanto dal desiderio di stare insieme con nessun altro scopo che quello di godere del reciproco beneficio derivante dallo scambio dei doni dell’intelligenza e del cuore. La società di amici è la società etica per eccellenza, fondata su regole non scritte, cui si ubbidisce spontaneamente, non per timore di una qualsiasi sanzione, e neppure per supina reverenza ad un’autorità superiore, ma per il piacere che sia trae dalla loro osservanza: un frammento reale dell’ideale regno dei fini, ove gli uomini per convivere non avranno bisogno che di leggi liberamente consentite. Ma, appunto, non vi è amicizia al di fuori di una vita morale intensamente vissuta, della pratica di alcune virtù etiche tradizionali, che nessun codice morale può ignorare” (p. 177). 

 

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