Pietro Polito
La forza mite della cultura
Domenica, 12 aprile 2020, nel giorno della Pasqua, che onoro laicamente nel rispetto di credenti, non credenti, diversamente credenti, ho accompagnato gli auguri di rito, con queste parole: “La cultura è una forza mite che goccia a goccia scava la pietra”. Le risposte delle amiche e degli amici, che ringrazio di cuore, esprimono pensieri, sentimenti, preoccupazioni comuni, eppure non sempre concordi e convergenti, che si prestano a ulteriori svolgimenti per continuare la discussione. Direi che si possono distinguere a grandi linee due posizioni: i fiduciosi e gli scettici sulle possibilità della cultura. (Io oscillo tra l’una e l’altra).
I fiduciosi credono che “bisogna tener fede ai nostri valori più profondi” e rispondono con un laconico: “Speriamo” oppure si richiamano alla mitezza bobbiana o ancora esprimono la convinzione che la cultura non è solo la strada maestra, ma è l’unica via: “Senza cultura non c'è vera cittadinanza e non c’è futuro”. Gli argomenti degli scettici sono consistenti, fondati e vanno presi sul serio. C’è chi ricorda che “la pietra è dura”, chi sulla base dell’esperienza fa presente che a volte “sembra di vivere in un paese di analfabeti di ritorno” e chi osserva che perlopiù la filosofia, e in generale la cultura, si rivela incapace di dare risposte a domande di natura epocale, del tipo dove sta andando o andrà il mondo. Come non dargli ragione?
Lo scetticismo trova facile alimento dal diffuso comprensibile sentimento di paura che oggi domina le nostre vite. Una paura che ha fatto un salto ulteriore. Mentre la paura verso il migrante è una paura strumentale e creata ad arte, la paura del contagio è una paura concreta che potenzialmente ci riguarda tutti: “La paura è come un grande albero, dal quale germogliano molti rami, ciascuno con una sua conformazione: questa nostra ultima paura è ancora più temibile, la causa è inafferrabile. Nasce, può nascere, da ogni luogo e non è facile e talora impossibile difendersi. [...] Si fa fatica a vedere un futuro, agonizza la speranza che ne è l’emblema e si scivola nel gorgo di un disperato individualismo che ci rende estranei agli altri” [1]. Ebbene, che cosa c’è che non lascia vincere la paura se non la cultura?
Viviamo un periodo di crisi morale. Ce ne sono state altre in passato ma forse mai così gravi come quella attuale. Solo apparentemente il tempo è sospeso. In realtà la storia continua a scorrere e scorre veloce contro di noi. Tanto che a molti di noi in questi giorni è tornato alla mente il celebre motto che s’incontra nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci: “Il pessimismo dell’intelligenza, l’ottimismo della volontà”. Nella nota Passato e presente. Del sognare a occhi aperti e del fantasticare che si trova nel Quaderno 9, databile fra l'aprile-maggio 1932 e il settembre dello stesso anno, Gramsci ci mette in guardia. Durante la crisi “si immagina che un fatto sia avvenuto e che il meccanismo della necessità sia stato capovolto” e che quindi “la propria iniziativa è divenuta libera”, che “tutto è facile”, che “si può ciò che si vuole, e si vuole tutta una serie di cose di cui presentemente si è privi”. Al contrario, “in fondo”, è “il presente capovolto che si proietta nel futuro. Tutto ciò che è represso si scatena”. Rimane tuttora valido l’insegnamento che nei periodi di crisi “occorre invece violentemente attirare l’attenzione nel presente così come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”[2].
Un altro luogo celebre è la lettera scritta al fratello Carlo il 19 dicembre 1929. Qui Gramsci ricorda l’esperienza della guerra vissuta dal fratello Nannaro “in condizioni eccezionali, da minatore, sottoterra” e afferma che “con tali esperienze psicologiche, l’uomo dovrebbe aver raggiunto il grado massimo di serenità stoica, e aver acquistato una tale convinzione profonda che l'uomo ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli - da non disperare mai più e non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che chiamiamo pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l'intelligenza, ma ottimista per la volontà”[3].
Se c’è chi propende chi propende per l’ottimismo della volontà e chi per il pessimismo dell’intelligenza (come chi scrive), segnalo che per la circostanza è stata proposta una intelligente riconsiderazione della formula: l’ottimismo della ragione. Per Felice Roberto Pizzuti, “anziché nel pessimismo dell’intelligenza e nell’ottimismo della volontà la crisi spinge a sperare nella razionalità. [...] Specialmente in Europa, dobbiamo sperare nel risveglio della ragione (se non anche dei buoni sentimenti)”[4].
Il risveglio della ragione.
È evidente che quando si parla della forza mite della cultura si allude alla cultura della ragione. La complessità inedita della crisi che viviamo conferma clamorosamente l’irrazionalità, è difficile dire quanto voluta e calcolata, di coloro che nella classe dirigente – politici, intellettuali, economisti, scienziati ecc. – si ostinano a rimanere abbarbicati alle ricette del passato che hanno condotto agli attuali esiti rovinosi. Alla crisi attuale non siamo arrivati impreparati. L’insorgenza improvvisa della pandemia ha rivelato in un istante la fragilità dei modelli di comportamento che abbiamo avuto in passato. Il presente quanto il passato dovrebbe ispirare le nostre azioni. Eppure, pervicacemente, non cerchiamo di arricchirci della ricchezza e della sensibilità del passato e (per ora?) continuiamo a percorrere un sentiero che sapevamo e sappiamo dove ci avrebbe e ci ha portato, perfettamente consapevoli di avere imboccato una strada sbagliata.
L’invito è, con Gramsci, ad attirare l’attenzione nel presente così come è, a non sognare a occhi aperti, a non fantasticare, a pensare, “in ogni circostanza, alla ipotesi peggiore, per mettere in movimento tutte le riserve di volontà ed essere in grado di abbattere l'ostacolo”, a non farsi illusioni per non avere delusioni, ad armarsi di “una pazienza illimitata, non passiva, inerte, ma animata di perseveranza”[5].
La raccomandazione principale è a non scambiare la razionalità con la saggezza convenzionale. Questa si esprime in inconcludenti e diffuse invocazioni al ritorno a una presunta normalità infranta e da restaurare come se nulla fosse accaduto. Mentre la ragione, una ragione diffidente sia verso gli sterili e dannosi volontarismi populistici, sia verso le sirene ragionieristiche tanto accomodanti quanto vacue, è chiamata a immaginare e a percorrere sentieri incogniti, a pensare un dopo che non s’illuda di superare la drammaticità del presente, ripristinando la banalità del prima.
Concludo tornando al dialogo tra le amiche e gli amici, da cui sono partito. Un’amica mi ha scritto: “Grazie alla forza della cultura, usciremo da questa esperienza con molte consapevolezze in più, in termini spirituali, politici, socio-economici e ambientali: l’importante è farne davvero tutti tesoro, per costruire un mondo più equo e sostenibile”. Mi auguro che il suo auspicio non sia una illusione destinata a rivelarsi una delusione.
Questo è il nostro impegno comune.
[1] Eugenio Borgna, Follia e poesia sono sorelle, intervista a cura di Antonio Gnoli, in “La Repubblica” - “Robinson. L’isola che c’è”, n. 175, sabato, 11 aprile 2020, p. 35.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1131.
[3] A. Gramsci, Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A.A. Santucci, Sellerio, Palermo 1996, p. 298.
[4] Felice Roberto Pizzuti, Ottimismo della ragione e della solidarietà, in “il manifesto”, a. L, n. 89, domenica 12 aprile 2020, p. 9.
[5] A. Gramsci, Lettere dal carcere 1926-1937, cit., p. 298.