Chiave di lettura - 04/20
Il primo uomo. Camus a 60 anni della scomparsa
di Cesare Pianciola
Sul numero di febbraio 2020 di «Una città», rivista di interviste e interventi che si stampa a Forlì, troviamo − oltre a un articolo di Cesare Panizza sul carteggio tra Chiaromonte e Camus appena pubblicato in Francia a cura di Samantha Novello − una lunga intervista a Catherine Camus sul padre, che perse quando aveva quindici anni.
In questi giorni di pandemia, su vari siti viene riproposto e commentato il romanzo La peste, ma qui vorrei ricordare un altro libro.
Il 4 gennaio 1960 Albert Camus morì vicino a Parigi in un incidente d'auto, insieme al suo amico ed editore Michel Gallimard. Aveva solo 46 anni. La sua borsa, recuperata tra i rottami, conteneva il manoscritto del romanzo su cui lavorava, che la figlia trascrisse e pubblicò nel 1994: Le Premier Homme (Il primo uomo, trad. it. di Ettore Capriolo, Bompiani, 1995 e successive ristampe).
Benché si tratti di una stesura ancora provvisoria e incompiuta, il libro è non meno importante di capolavori come Lo straniero e La peste. Vi troviamo il racconto autobiografico dell'infanzia e dell'adolescenza dello scrittore in Algeria, i cui paesaggi polverosi e le atmosfere assolate sono potentemente evocati.
Rimasto subito orfano per la morte al fronte del genitore, all'inizio della prima guerra mondiale, il protagonista, Jacques Cormery, alias Albert Camus, da adulto prova dinnanzi alla tomba di quel “ragazzo ingiustamente assassinato” la vertigine di essere “più vecchio del padre”.
L'infanzia dell'alter ego di Camus è dominata dalla nonna capofamiglia, la cui durezza è un modo di conservare nella miseria e nelle avversità la dignità per sé, per i figli e i nipoti. A Jacques, in previsione della crescita, vengono cuciti abiti troppo grandi, in cui sta a disagio, e la sera deve mostrare le scarpe per far vedere se le ha troppo consumate giocando a pallone e ricevere eventualmente una buona dose di nerbate.
La povertà è narrata con molto pudore. C'è un bellissimo capitolo sulla vita a suo modo felice dello zio bottaio, sordo dalla nascita, operaio pieno di gioia di vivere. Chi è veramente infelice è la madre, giovane donna analfabeta, mite e sottomessa, a cui Jacques è profondamente legato. Il primo uomo ha come dedica: “A te che non potrai mai leggere questo libro”. Celebre la dichiarazione di Camus, che fece scandalo nella sinistra che sosteneva il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, in occasione del conferimento del premio Nobel: “Ho detto e ripetuto che occorreva rendere giustizia al popolo algerino [...]. Ho sempre condannato il terrore. Devo condannare anche un terrorismo che si esercita ciecamente, nelle strade di Algeri per esempio, e che un giorno può colpire mia madre o la mia famiglia. Credo nella giustizia, ma difenderò mia madre prima della giustizia” («Le Monde», 14 dicembre 1957). Nel Primo uomo c'è un capitolo sull'Algeria coloniale molto tormentato: Mondovì, la colonizzazione e il padre.
Jacques ha la fortuna di incontrare un maestro che convince la famiglia a farlo studiare; nella realtà si chiamava Louis Germain e in una lettera in appendice al romanzo Camus lo ringrazia con affetto. Giunto al liceo Camus patì profondamente le differenze di classe e scrivendo “domestica” quando gli domandarono la professione della madre “conobbe di colpo la vergogna e la vergogna di avere vergogna”. “L’onore del mondo − si legge in un appunto per il romanzo − per me è fra gli oppressi, non fra i potenti”.
Sartre, del quale quest'anno ricorrono i quarant'anni della morte, ebbe con Camus un'amicizia intensa e complicata, rotta nel 1952, quando Sartre divenne fiancheggiatore del Pcf e Camus con L'homme révolté (1951) si mostrò invece un critico radicale della rivoluzione marxista in nome della rivolta libertaria. Quando Camus morì, su «France Observateur» Sartre lo collocò nella grande tradizione dei moralisti francesi riconoscendo che “riaffermava, con l'ostinazione del suo rifiuto, contro i machiavellici, contro il vitello d'oro del realismo, nel pieno della nostra epoca, l'esistenza del fatto morale”.
Ma Camus era un moralista “impolitico” oppure proponeva un'altra idea di politica? Una politica che, invece di avventurarsi in imprese di rigenerazione totale pensando di realizzare il senso della Storia, riconosce i limiti della condizione umana e sa che “l'uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo” (L'uomo in rivolta), praticando la solidarietà attiva con chi soffre, come fanno Rieux e Tarrou ne La peste.
È in questo senso che leggiamo il motto che Camus si scelse: Solitaire/solidaire.